Economia

Onu. Nel 2050 in 4 miliardi vivranno in terre aride, allarme per il degrado del suolo

Pietro Saccò martedì 27 marzo 2018

Ceppi in una valle del Madagascar, causati da deforestazione e modelli agricoli obsoleti (Dudarev Mikhail, Shutterstock, Ipbes)

Il primo rapporto mondiale sul degrado del suolo ha prodotto risultati allarmanti. In molte aree del pianeta la situazione dei terreni ha raggiunto livelli «critici», la rapida espansione di terre agricoli e pascoli gestiti in maniera non sostenibile sono il problema principale e stanno provocando significative perdite di biodiversità e di “servizi ecosistemici”, cioè dei benefici che la varietà dell’ecosistema offre agli esseri umani.

«Con un impatto negativo sul benessere di almeno 3,2 miliardi di persone, il degrado del suolo sulla superficie terrestre a causa delle attività umane sta spingendo il pianeta verso la sesta estinzione di massa delle specie» ha avvertito il sudafricano Robert Scholes, scienziato dell’ecologia dei sistemi che ha coordinato lo studio assieme all’italiano Luca Montanarella, ingegnere agronomo dal 2003 alla guida del centro di ricerca della Commissione europea sui dati del suolo.

Il report è il primo di questo genere realizzato dall’Ipbes, la “piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici” avviata nel 2012 dall’Unep, il programma delle nazioni unite per l’ambiente. L’Ipbes è stata creata per condurre un lavoro di ricerca internazionale, autorevole e indipendente sugli effetti che l’attività umana ha sugli ecosistemi sul modello di quanto il più famoso Ipcc ha fatto per il clima.

Alla realizzazione di questo studio, prodotto dopo tre anni di lavoro, hanno partecipato più di cento esperti da quarantacinque nazioni, sulla base di oltre tremila ricerche scientifiche pubblicate. Il risultato è stato rivisto da oltre duecento studiosi indipendenti, inclusi funzionari governativi, e quindi approvato, lunedì scorso, durante la sesta sessione plenaria dell’Ipbes, a Medellìn, in Colombia. Ieri ne è stata pubblicata un’anticipazione, presto arriverà il documento completo.

Il degrado del suolo si manifesta in modi diversi: l’abbandono di terreni, il declino della popolazione e delle specie selvatiche, la deforestazione, la perdita e il peggioramento della salubrità del terreno, dei pascoli e dell’acqua. Dal 2014 sono stati convertiti in terre agricole oltre 1,5 miliardi di ettari di ecosistemi naturali. Solo il 25% della superficie terrestre ha evitato di essere significativamente modificato dall’attività umana, quota che entro il 2050 si ridurrà al solo 10%.

Nelle proiezioni al 2050, gli studiosi prevedono 4 miliardi di persone costrette a vivere in terre arride tra i 50 e i 700 milioni di esseri umani che non avranno alternativa a migrare. Il calo della resa dei terreni provocherà anche tensioni sociali. «Soprattutto nelle terre aride, dove anni di piovosità estremamente bassa sono stati associati a un aumento del 45% dei conflitti violenti» nota Scholes. Montanarella aggiunge che le aree più a rischio di un peggioramento del degrado del suolo sono l’America centrale e il Sudamerica, l’Agrica sub-Sahariana e e l’Asia.

C’è un legame evidente tra le conclusioni dell’Ipbes e quelle dell’Ipcc. «Il degrado del suolo, la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico sono tre facce differenti della stessa sfida: l’impatto sempre più pericoloso delle nostre scelte sulla salute del nostro ambiente naturale» ha commentato Robert Watson, presidente dell’Ipbes. Questo significa che per evitare il peggioramento della situazione occorre cambiare i comportamenti. Per esempio, suggerisce l’Ipbes, si può evitare l’ulteriore espansione dei terreni agricoli migliorando la resa delle terre già coltivate, spostandosi verso diete che prevedono più frutta e vegetali e meno proteine animali da fonti non sostenibili, e poi ridurre lo spreco di cibo.

Ci sono poi una serie di azioni che possono dare un contributo: dalla gestione attenta dei sistemi forestali e degli allevamenti al controllo dell’inquinamento nelle zone umide fino agli interventi urbani, come lo sviluppo delle vie fluviali, l’espansione dei parchi, il ripiantamento di alberi e piante autoctone.

Tocca ai governi darsi da fare. Badando più ai vantaggi a lungo termine che ai costi immediati, avverte l’Ipbes: in media, stimano gli scienziati, i benefici del ripristino di un ecosistema sono dieci volte superiori ai costi, che comprendono anche la perdita dei posti di lavoro legati ad attività non sostenibili.