Economia

Studio Uil. Il lavoro a termine cresce del 20%

lunedì 4 agosto 2014
In cinque anni di crisi, dal 2008 al 2013, costati oltre un milione di posti di lavoro, i contratti di lavoro a tempo indeterminato sono crollati del 46,4% con un progressivo spostamento dell'offerta verso i contratti a tempo determinato, aumentati contestualmente del 19,7%. È la qualità del lavoro, oltre che la quantità, dunque, a restare al palo in termini di stabilità e di continuità: l'incidenza di assunzioni con forme contrattuali 'instabili', infatti, sale, sul totale dei contratti sottoscritti, dal 72,7% del 2008 all'80,9% del 2013 mentre il peso di quello stabili, dal tempo indeterminato all'apprendistato, scende al 19,1 del 2013 rispetto al 27,3% del 2008.
 
A scattare la fotografia di un mercato del lavoro schiacciato dalla recessione è uno studio del Servizio politiche del lavoro della Uil, che il segretario confederale Guglielmo Loy, coordinatore dello studio, sintetizza così. Una "fragilità" che non migliora nel primo trimestre 2014: quattro attivazioni su cinque sono temporanee e rimane altissima la quota dei contratti a termine , circa 1.583.808, che sfiorano il 67% sul totale. Sono state invece , tra gennaio e marzo di quest'anno, circa 418.396, il 17,6%, le assunzioni con contratti a tempo indeterminato e l'8%, 189.922, quello con contratti di collaborazione mentre i rapporti di apprendistato sono stati 56.195 pari al 2,4% del totale. Una crisi pesante che filtra in controluce dai dati relativi ai rapporti di lavoro attivati dalle imprese e comunicate al ministero del Lavoro dal 2008 al 2013 che forniscono un'analisi asettica ma impietosa della situazione occupazionale del Paese: se nel 2008, infatti, per 11 milioni di volte le aziende hanno avviato al lavoro una persona, nel 2013 ciò è avvenuto solo in nove milioni di occasioni.
 
A confermare il progressivo aumento della temporaneità del lavoro, "che rischierà di espandersi ulteriormente con l'ennesima innovazione normativa del Dl Poletti", dice ancora la Uil, anche il dato che registra la media di contratti attivati per lo stesso lavoratore: si passa infatti da 1,64 attivazioni del 2009 a 1.78 del 2013. "In sostanza aumentano gli avviamenti a termine ma calano le persone interessate", spiega ancora Loy. E nel 2013 è il Lazio la regione in cui si concentra il maggior numero di attivazioni di contratti, circa 1,4 milioni, sorpassando così la Lombardia che ne denuncia 1,3 milioni al secondo posto, dunque, seguita dalla Puglia con 1 milione di attivazioni. Ma la classifica indica anche come la quantità di contratti sottoscritti non faccia rima con 'stabilità': Lazio e Puglia infatti, si legge ancora nel Report, sono anche le Regioni più flessibili considerato che ogni singolo lavoratore sottoscrive almeno 2 contratti ogni anno. Ma una analisi di come si sta manifestando l'effetto della crisi sull'occupazione sarebbe incompleta senza il dato di come e di quanto cessano i rapporti di lavoro. Nel 2013 si sono chiusi 9,8 milioni di rapporti di lavoro con un saldo negativo rispetto alle attivazioni di oltre 157mila.
 
Un dato che conduce anche alla quantificazione dei primi effetti della legge Fornero sull'art.18: i licenziamenti nel 2013 ammontano infatti a 927mila175, il 10% in meno di quanto registrato nel 2012, anno della riforma, che si chiuse con un milione 38mila919 licenziamento ma comunque sempre il 15,6% in più di quanto registrato nel 2009. "Alla faccia di chi sostiene che in Italia è difficile licenziare", chiosa ancora Loy.
 
Discesa vertiginosa invece, per le dimissioni che nel biennio 2012-2013 sono calate di 400mila. Un effetto, scrive la Uil, dovuto principalmente al blocco sostanziale dei pensionamenti disposti dalla legge Fornero e da una stretta normativa sulle dimissioni in bianco. In generale comunque, oltre la metà delle cessazioni di contratto ha riguardato i lavoratori under 44 e la cessazione del ''termine'' è stato il 65% dei motivi alla base della chiusura dei rapporti di lavoro. Circa 1/3 dei contratti cessati è comunque durato non più di 1 mese. Le Regioni con il più alto tasso di ''fine lavoro'' restano Lazio, Lombardia e Puglia a conferma della forte quota di lavoro fragile in queste realtà. "La bassa crescita continua a provocare danni profondi al nostro mercato del lavoro e che solo affrontando quel tema, appunto la crescita, si potrà guardare con un po' di serenità il futuro occupazionale di milioni di persone", conclude Loy.