Economia

INCHIESTA. Nei call center ora squilla la crisi

Mauro Cereda mercoledì 25 aprile 2012
​Per il settore dei call center non è un momento facile. La crisi economica sta facendo sentire i suoi effetti anche qui. Le aziende-clienti ci pensano bene prima di commissionare una campagna di telemarketing o di teleselling. E quando si decidono, "tirano" sul prezzo. Oggi a dettare legge, infatti, sono le gare al massimo ribasso: vince chi offre il servizio con il supersconto. E questo nonostante la legge Biagi e la successiva circolare Damiano abbiano ristretto le possibilità di utilizzo dei contratti di collaborazione, facendo innalzare tutele ma anche costi.E così, per sopravvivere o comunque per aumentare i margini di profitto, molti operatori scelgono di andare all’estero, di aprire succursali in Paesi dove il costo del lavoro è inferiore al nostro e dove, dicono i sindacati, su orari e diritti dei lavoratori la maglia è più larga. Si chiama delocalizzazione: l’azienda si sposta oltre confine (Albania, Romania, Tunisia…) ma il mercato a cui si rivolge resta quello italiano. Di numeri precisi non ce ne sono, ma ad ammettere che la questione è seria è anche Assocontact, l’associazione dei contact center in outsourcing legata a Confindustria Digitale. «Assocontact – osserva il presidente, Luca D’Ambrosio – pur non essendo contraria all’offshoring, è fermamente convinta che si possa e si debba agire per rendere maggiormente competitivo il lavoro italiano. La qualità del servizio espressa in Italia è senza dubbio maggiore di quella registrata all’estero. Non siamo in possesso di dati certi ma il fenomeno è tangibile e aumenta di mese in mese. Sono sempre più frequenti gli spostamenti all’estero di attività svolte sul territorio nazionale. Perché altrove i costi sono più bassi e la flessibilità è maggiore».La Slc-Cgil nel 2011 ha lanciato una campagna per chiedere una moratoria contro le delocalizzazioni. Nel dossier preparato per l’occasione figurano i nomi di grosse aziende che si servono di società che lavorano oltre confine: da Sky ad Alitalia, da Vodafone a Telecom, a Fastweb. «Quel dossier rimane valido e attuale – spiega Riccardo Saccone, coordinatore del settore call center della Slc-Cgil – ancora oggi vi sono quote sempre più importanti di lavoro che vanno fuori Italia, alcune alla luce del sole, altre per vie traverse. È un fenomeno che non accenna a diminuire, tant’è vero che la moratoria sulle delocalizzazioni è un nodo importante della piattaforma sul rinnovo del contratto nazionale di lavoro, attualmente in discussione con la controparte datoriale».Un problema che non riguarda solo gli addetti del settore, ma anche i cittadini. I sindacati mettono in guardia sugli effetti che queste dinamiche possono avere sulla tutela della privacy. Di fatto, un’ingente mole di dati sensibili sulla vita privata delle persone (numeri di carta di credito, codici iban, informazioni sulle propensioni al consumo…) viene spostata all’estero, anche in Paesi che non appartengono all’Unione europea. Ma a spingere sempre più verso la delocalizzazioni, sono anche le condizioni del mercato italiano.«Uno dei problemi più grandi – evidenzia Tania Sarti, componente del gruppo di lavoro sui call center della Fistel-Cisl – è che le aste per le commesse sono al massimo ribasso. Non contano la qualità o la professionalità del servizio, ma il prezzo. Il cliente vuole pagare il meno possibile. Come sindacato ci stiamo impegnando per cambiare le regole. Molti call center sono andati in crisi proprio per questo motivo. E a vincere le gare sono spesso aziende che fanno svolgere il lavoro o parte di esso all’estero. È una forma di concorrenza sleale che va contrastata». Tra i principali committenti sul mercato ci sono le imprese delle telecomunicazioni. Fino a qualche anno fa le realtà più grandi gestivano l’attività di call center direttamente, ma intorno al 2000 hanno cominciato ad esternalizzarla. Oggi i call center "interni" occupano circa 20mila addetti. «Esternalizzare – sottolinea Raffaele Nardacchione, direttore di Assotelecomunicazioni-Asstel, l’associazione confindustriale della filiera delle Tlc – non significa cercare di abbassare i costi, bensì affidarsi ad un partner specializzato. È una scelta di focalizzazione del business. La delocalizzazione? Fa parte della libertà di impresa, l’importante è rispettare la legge. Qualcuno è preoccupato per la tutela della privacy, ma voglio ricordare che è comunque protetta dalle norme italiane e presto lo sarà anche a livello di Unione europea. In quanto alle gare al massimo ribasso, credo che sia un problema che riguarda gli appalti della pubblica amministrazione, non certo degli operatori delle telecomunicazioni».La crisi economica e le delocalizzazioni però si fanno sentire sull’occupazione. Negli ultimi anni è aumentato il ricorso agli ammortizzatori sociali e secondo i dati di Assocontact tra posti a rischio e persi siamo a quota 10mila. Tanti per un settore che conta circa 70mila addetti, 200 imprese (con 5 di esse che controllano il 60% del mercato) e fattura un miliardo di euro (il 65% rappresentato dalla filiera delle Tlc). «Il settore dei contact center – nota ancora D’Ambrosio – svolge un’importante funzione sociale. Nelle zone a basso tasso di occupazione accompagna i giovani verso una prima esperienza, spesso in affiancamento alla carriera universitaria; in quelle ad alto tasso di disoccupazione è un’opportunità di impiego costante nel tempo. Inoltre costituisce un’occasione di ingresso e reingresso al lavoro, ad esempio per mamme al rientro dalla maternità che, grazie ai numerosi contratti part time, possono conciliare meglio il lavoro con gli impegni familiari». Il contratto nazionale prevede turni di lavoro da 4 a 8 ore al giorno, su fasce a rotazione per coprire le 24 ore del servizio. I ritmi sono piuttosto serrati (ogni addetto deve raggiungere un certo obiettivo). Chi lavora 4 ore guadagna attorno ai 550 euro mensili, chi ne fa 8 circa mille.