Economia

ECONOMIA E POLITICA. L'Europa dice sì al Fondo salva-Stati

Giorgio Ferrari venerdì 17 dicembre 2010
Sarà stata la vaga sensazione di ballare sul ponte del Titanic, ma nella gelida e un po’ lugubre Bruxelles battuta da un nevischio sferzante i capi di Stato e di governo dei Ventisette riuniti nel più delicato dei vertici dell’anno sapevano bene che non è più tempo di indugi e già ieri sera – sull’onda della paura, più che della convinzione – si profilava l’ipotesi di un accordo. Il bollettino di guerra del resto non era confortante: prima la Spagna, poi la Grecia, sulla sfondo il Portogallo, l’Irlanda e – lo si sussurra e poi lo si nega – anche il Belgio, messo sotto osservazione da Standard & Poor’s. Tutti a rischio declassamento, tutti sotto il fuoco della speculazione, in un perverso domino che costringe tutti a riconoscere che quella del debito sovrano è una crisi ormai sistemica nella zona euro.A ben vedere però, a prendere un’immediata e salvifica decisione è stata la Bce, assai più efficace e rapida dei governanti, raddoppiando il proprio capitale sociale a tutela di futuri soprassalti della speculazione internazionale. Nel frattempo sul tavolo dei Ventisette ci si arrovellava ieri attorno alla definizione del meccanismo permanente salva-Stati che dovrà subentrare nel 2015 all’Efsf (European financial stability facility), il dispositivo da 750 miliardi di euro – di cui 440 a carico dell’Unione Europea – messo in campo l’estate scorsa dopo la crisi greca e che sarà utilizzato per la prima volta per sostenere i conti dell’Irlanda. In pratica, un salvagente ancora più consistente, si dice il doppio della somma finora messa a disposizione, che scoraggi la presa della speculazione. Per far ciò i leader europei finivano per accordarsi per una revisione morbida del Trattato di Lisbona, in particolare dell’articolo 136 che regola il funzionamento dell’Unione e degli Stati membri adottano la moneta unica. L’attuazione dell’accordo che verosimilmente verrà ratificato domani non nasconde tuttavia il fatto che almeno due differenti punti di vista si scontrano. Quello rigorista, capeggiato dalla Germania, e quello più fortemente europeista, preoccupato della tenuta dell’Unione e dell’area euro più che dei nudi conti. I quali tuttavia  non perdonano. Dice Angela Merkel, stemperando la durezza con cui nei giorni scorsi aveva accusato il "Club Med" (inteso come i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo) di far conto sul provvidenziale ombrello europeo per continuare a praticare disinvolte politiche di bilancio: «Nessuno in Europa sarà lasciato solo, nessuno sarà lasciato cadere». In realtà il nodo più difficile da sciogliere è quello degli eurobond, ovvero delle obbligazioni emesse dall’eurozona: il ministro Tremonti e il presidente dell’eurogruppo Juncker ne propongono l’impiego in un prossimo futuro, incoraggiati dall’europarlamento, dai portoghesi e in genere da quel sud dell’Europa dove, per dirla con le parole del direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, «la ripresa è molto fiacca».Non per niente all’idea di un’obbligazione europea la Germania (e dietro di essa i virtuosi Paesi del nord ed anche un’arcigna Austria) si oppone, in quanto un’unica emissione toglierebbe a Berlino gran parte del proprio vantaggio competitivo derivato dal differenziale che si crea con gli altri Paesi: ieri lo spread con la Spagna è salito di nuovo e il rendimento medio dei titoli decennali arrivava al 5,6%. In buona sostanza, un bond europeo annullerebbe l’eccellenza germanica. Su una cosa però concordano tutti, leader, Commissione europea ed europarlamento: l’euro va salvato ad ogni costo.Dall’altra parte dell’Atlantico, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha però lanciato la sua stoccata: con le decisioni che si apprestano a prendere i 27 leader della Ue «non otterranno molto» ha tuonato, tornando a criticare «l’approccio troppo frammentario» e soprattutto la lentezza dell’Europa nel prendere decisioni anti-crisi.