Economia

Oltre il Pil. Bes, dicono che è naïf ma oggi è decisivo

Leonardo Becchetti giovedì 14 maggio 2015
Passeggiare per le vie di New York in una giornata tersa di primavera aiuta a schiarirsi le idee per capire quello che il Rapporto Mondiale sulla Felicità 2015 appena uscito, e da poco discusso, ci dice di nuovo. È vero che i confronti tra diverse nazioni sono complicati da fattori culturali. Ed è probabile che in Paesi come il nostro, dove l’evasione fiscale e la dipendenza dal pubblico sono forti, l’idea che 'lamentarsi paga' (come pensano anche tifosi e presidenti di squadre di calcio) influenzi pure le dichiarazioni sulla felicità. La classifica delle variazioni di felicità per lo stesso Paese degli ultimi dieci anni però non è affetta da questi problemi e ci consegna il dato inequivocabile del 'crollo' di Italia e Grecia (terzultima ed ultima) su 125 Paesi monitorati, ricordandoci bruscamente la realtà dei problemi dell’Eurozona. Incrociando questo dato con i nostri del Bes sappiamo che in Italia il grosso dell’effetto è concentrato nel 2012, ai tempi della crisi dello spread. Ma cosa spiega le differenze di felicità tra Paesi? Le stime econometriche sui dati Gallup (la migliore banca dati del mondo nel genere) ci dicono che tre quarti di ciò che osserviamo è spiegato da cinque sole variabili: la salute (aspettativa di vita alla nascita), il reddito pro capite, la percezione di corruzione, la libertà di scegliere tra diverse opportunità, la vita di relazioni (su quanti possiamo contare? Abbiamo una fede?) e la capacità di vivere la gratuità nella propria vita. Il restante 25% cattura fattori non ancora spiegati.  E girando per New York, questa città strabiliante dove i grattacieli sono un simbolo di potenza e il consumatore è un re stordito da una cornucopia da paese dei balocchi, si capisce subito che il capitalismo va molto forte su due di queste variabili (reddito pro capite e aspettativa di vita) mentre riesce a malapena a inquadrare nel radar le altre due fondamentali (relazioni e generosità). Guardando col naso all’insù queste moderne cattedrali laiche si capisce che per la creazione aggregata di beni e servizi e per i progressi della tecnologia e della medicina la nostra civiltà ha ormai il pilota automatico, ma girando per la città ci si rende anche conto che la difficoltà dello stesso sistema di redistribuire reddito e la perdita di sapienza nella vita di relazioni produce molta infelicità. E negli Stati Uniti il problema è aggravato dal fatto che se non sei stato capace di fare soldi vuol dire che non vali (al contrario che da noi dove avere soldi è quasi una colpa) e dunque lo stress per la competizione nella scalata al successo prosciuga forze ed energie lasciando poco tempo per l’investimento in relazioni.  È su gli ultimi due dei cinque fattori chiave (relazioni e generosità), oltre che sulla lotta alla corruzione, che la civiltà occidentale deve concentrare la sua attenzione se vuole migliorarci. Un dato inquietante da questo punto di vista è il mea culpa sollevato da Richard Layard uno dei guru dell’economia inglese con una lunghissima tradizione alla London School of Economics. I suoi studi più recenti si soffermano su quali fattori nella vita dei bambini influenzano capacità di realizzazione e al converso il rischio di malattie mentali nell’età adulta. E quella che per noi sembra la scoperta dell’acqua calda (l’equilibrio emotivo e l’affetto di persone di riferimento come familiari e docenti esemplari conta molto di più delle nozioni acquisite) è in realtà il commovente e disperato atto di autoaccusa di una cultura che ha puntato soltanto su competenze e competizione perdendo completamente di vista l’importanza dei legami. Producendo personalità sempre sull’orlo dello squilibrio, professionisti 'dopati', analfabeti della vita sentimentale come sempre di più rischiamo tutti di diventare se ci incammineremo anche noi su quella china.  Tutte queste evidenze suggeriscono una cosa sola. Se è vero che l’Italia e l’Unione Europea devono ancora arrivare alla frontiera delle capacità di innovare e gestire l’economia (ma anche qui per un’incapacità di vere relazioni di solidarietà e condivisione delle risorse tra Paesi membri della Ue), è anche vero che la grande sfida futura delle civiltà occidentale è quella di rimontare la 'regressione primitiva' delle relazioni che ci ha portato a confondere i rapporti interpersonali con i beni di consumo. Non è un caso che da queste parti gli estensori del rapporto guardano con molto interesse al nostro capitolo dell’«economia civile» concordando sul fatto che solo progredendo nel coltivare relazioni e virtù civiche possiamo evitare quella lenta erosione di capitale sociale che è il collante fondamentale che tiene assieme l’edificio sociale ed economico.  Non fa niente se qualche volta noi studiosi del benessere oltre il Pil saremo giudicati un po’ naïf perché l’unica vera direzione dove possiamo fare progressi, e riequilibrare un mondo pericolosamente sbilanciato, è proprio questa. I dati sulla felicità sono una cosa estremamente seria. Sulla base di essi la Gallup fornisce una mappa, considerata fondamentale, per 'predire' i flussi migratori. E se, come dimostra un recente studio, sono le variazioni di felicità degli elettori e non quelle di reddito che spiegano i risultati elettorali (it’s the happiness not the economy stupid!  direbbero gli americani). C’è molto da lavorare sul fronte dell’adozione di indicatori di benessere più omnicomprensivi e nel promuovere iniziative in grado di alimentare la produzione di valori sociali e la qualità della vita di relazioni, come da tempo sta cercando di fare Avvenire con una campagna mediatica unica in Italia. Lo hanno capito i parlamentari che hanno proposto di valutare l’impatto delle leggi col Bes e l’Istat che ha appena lanciato i nuovi dati sul benessere nelle città. Gli studi sulla felicità sono una spia importantissima che ci ha aiutato, e continua ad aiutarci, a capire che cosa ci eravamo scordati di inserire tra le dimensioni del benessere. E dunque a scegliere le vie giuste per oggi e per domani.