Economia

Sindacati confederali alla prova. Al bivio del futuro

Francesco Riccardi giovedì 25 settembre 2014
«Ammetto di non essermi mai trovato in una situazione in cui le rappresentanze sindacali fossero tanto poco considerate», ha detto Raffaele Bonanni lasciando la guida della Cisl. E in effetti, se si guarda alle vicende politico-sociali degli ultimi mesi ci si rende conto di come le confederazioni, pur calcando ancora la scena mediatica e sociale, siano state del tutto marginalizzate da quella politica. Non si tratta solo di un episodio quanto di un cambiamento di scenario, che investe in pieno il sindacato fino a metterne in discussione l’esistenza, quantomeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto negli ultimi 50 anni.La prova che qualcosa sia cambiato per sempre è facilmente individuabile nell’iter della riforma del lavoro. Mai era accaduto che il progetto di un tale cambiamento non venisse discusso prima con le confederazioni. Non venisse almeno presentato alle "parti sociali". E invece oggi sui testi del cosiddetto Jobs Act arrivati al voto del Senato non si è svolto neppure un incontro. Né al massimo livello con il presidente del Consiglio né con il ministro del Lavoro (che peraltro non sembra avere margini di iniziativa autonoma).Una scelta consapevole, quella del premier, che non solo ha superato l’ormai comatosa "concertazione", ma ha pervicacemente perseguito una linea di azzeramento del "dialogo sociale" inteso come prioritario e determinante confronto con le organizzazioni sindacali. Un chiaro disconoscimento del ruolo di Cgil, Cisl e Uil. Di fatto la "rottamazione" – dopo quella della "generazione che ha fatto il ’68" – anche di tutta l’eredità sindacal-politica del 1969. Un’"asfaltatura" più potente di quella della "marcia dei 40mila", perché nel 1980 la Fiat coi sindacati subito dopo firmò un’intesa, mentre oggi il governo snobba persino le parziali aperture di Cisl e Uil.Certo, il sindacato non è morto. Le confederazioni contano ancora su milioni di iscritti, per quanto concentrati in 4 aree: pensionati, pubblico impiego, parte della grande industria e del terziario non avanzato, utenti di servizi come i caf e i patronati. Quanto basta, potendo contare ancora su notevoli mezzi finanziari, per portare in piazza centinaia di migliaia di iscritti, fiaccati da crisi e cassa integrazione, imbufaliti per il blocco della contrattazione e le minacce alla sicurezza del posto di lavoro. Ma la prova muscolare, quand’anche ci fosse, quand’anche le confederazioni riuscissero a bloccare i servizi pubblici (non le industrie private), sarebbe sterile e non sposterebbe di molto i rapporti di forza.Perché – al di là del risultato tecnico sull’articolo 18 – Renzi ha ormai sorpassato i sindacati a destra e a sinistra, da un lato affermando la primazia assoluta della politica nelle scelte e nella rappresentanza dei bisogni dei cittadini, dall’altro prendendosi di slancio (e, dopo le elezioni europee, a furor di voti) il maggiore partito di riferimento. Facendo leva sulla scarsa considerazione di cui i sindacati 'istituzione' godono fra i giovani – finora poco considerati e mal difesi – ha stretto Cgil, Cisl e Uil in una morsa dalla quale difficilmente potranno divincolarsi. Così oggi ai sindacati restano due strade. La prima è catalizzare attorno a sé la (vasta) protesta, trasfor-mandosi sempre più in un movimento essenzialmente parapolitico, che rappresenti una parte del disagio e verticalizzi il conflitto. La seconda è ripensarsi in chiave quasi esclusivamente sociale e produttiva, puntando a essere anzitutto rete orizzontale di inclusione e partecipazione attiva. Nelle fabbriche e nei (non) luoghi del lavoro diffuso, favorendo la formazione dei lavoratori (senza affarismo!) e gestendo i nuovi orari, puntando sulla costante crescita della produttività e con essa di salari e compensi legati agli utili dei lavoratori. Protagonisti anzitutto nelle imprese, nei territori, accanto ai nuovi lavoratori intraprendenti. Verso la prima strada sembrano orientarsi la Fiom e probabilmente la Cgil. La seconda via potrebbe invece essere lo sbocco naturale di una Cisl capace di rielaborare il proprio patrimonio ideale (la contrattazione aziendale è una intuizione di quella confederazione del 1952!) nel nuovo scenario postindustriale. In parte (assai in parte) la Cisl di Bonanni aveva cominciato questa trasformazione con una riorganizzazione delle categorie. Ma nell’era digitale i processi sono avvertiti solo se accadono in tempo reale. In una società ridisegnata dalle tecnologie e dalla globalizzazione, sempre più polarizzata tra élite della conoscenza e manodopera dei servizi di base, di un nuovo sindacato c’è bisogno perfino più che di una nuova politica. Ripensarsi non sarebbe né una ritirata né un passo indietro, ma un salto nel futuro.