Donne afghane

Afghanistan. Parisa, la nuova vita in Italia: da autista di Pink Shuttle a estetista

Daniela Pozzoli sabato 18 febbraio 2023

Parisa in Italia sogna di aprire un salone di bellezza

Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

Iran e Afghanistan, il cuore di Parisa è diviso tra questi due tormentati Paesi. Ci ha vissuto gran parte della vita e là si trovano le sue radici. Nata in Afghanistan, ha trascorso l’infanzia in Iran dove la famiglia si era trasferita («Non ho ricordi di quel periodo, ero troppo piccola») e, ormai sposata, è tornata in Afghanistan con il marito e i tre figli di 11, 8, 2 anni, per poi fuggire - grazie a un programma umanitario della onlus Nove - un anno e mezzo fa, quando i taleban hanno riconquistato il potere.

Oggi ha 49 anni e nella videochiamata dal tinello di casa spiega che «non si può fare un parallelo fra la situazione delle donne iraniane e quelle afghane. Le iraniane possono muoversi liberamente da sole, studiano, lavorano, adesso stanno portando avanti una battaglia per affrancarsi dall’obbligo del velo e dalle repressioni». Al contrario in Afghanistan «lo Stato islamico ha cancellato rapidamente, in meno di un anno, i traguardi ottenuti faticosamente in vent’anni. I taleban vogliono reprimere le donne, anche quelle che accettano l’obbligo dell’hijab o del burqa pur di riprendere a esistere, uscire, studiare e lavorare. Se non seguono questa regola, gli studenti coranici le imprigionano in casa. Qui in Europa è inimmaginabile, là è normale… ».

Parisa a Kabul, quando guidava i taxi - Nove onlus

L’attivista Madina traduce per noi dal dari, la lingua persiana parlata in Afghanistan, ma anche gli occhi di Parisa parlano, E continua a raccontare. Tornata a Kabul dall'Iran, Parisa aveva cominciato a fare la giornalista: «All’inizio – continua sorridendo - avevo trovato un posto in una radio, ma è durata poco, il mio accento è diverso da quello locale. Allora ho seguito un corso di dizione e sono stata assunta in una tv dove sono rimasta per alcuni anni».

Quando fare la reporter era diventato troppo rischioso, si è iscritta al corso gratuito della onlus Nove per autiste professioniste, un mestiere utilissimo in un Paese dove le patenti sono costose e dove le famiglie raramente investono sulle figlie. La onlus italiana - che opera da lungo tempo con programmi di sviluppo in tutela delle donne e degli “ultimi” – l’ha formata: «Guidavo il Pink Shuttle, la prima linea di trasporto afghana di donne per le donne (progetto nato anche con il sostegno di Otb Foundation, ndr.)».

Gli uomini erano scettici, faticavano a convincersi che le donne potessero cambiare una ruota, conoscere i motori, orientarsi nel traffico, ma hanno dovuto ricredersi. Questa iniziativa, spiega, permetteva infatti alle loro mamme, mogli, sorelle, figlie di spostarsi diminuendo i rischi. Il disegno era dunque ambizioso e intelligente: trasformare il progetto di mobilità in un’impresa imprenditoriale al femminile.

Tutto bene, finché sulla strada della tenace Parisa sono arrivati i taleban. Che cosa fare, se non mettersi in salvo? «L’evacuazione dal Paese è durata pochi ma interminabili giorni – racconta -, riuscire a scappare da Kabul è stato difficilissimo e l’impatto con il mondo occidentale è stato forte. La mia esistenza è andata a pezzi».

Parisa in Italia sogna di aprire un salone di bellezza - Nove onlus

Quando però le radici sono profonde si è avvantaggiati e la solida famiglia di Parisa pian piano si è curata le ferite. «Mio marito era stato scelto dai miei genitori, ma negli anni noi due abbiamo costruito un rapporto fondato su sentimenti veri».

Inseriti entrambi nel programma d’integrazione “Oltre l’accoglienza” di Nove, Parisa e i suoi hanno utilizzato tutti gli strumenti messi a disposizione per inserirsi nella nuova realtà italiana. «Prima siamo stati in Toscana, poi nel Lazio. Mio marito ha iniziato a seguire un corso di informatica, mentre io e mia figlia vorremmo aprire un negozio di estetica». Hanno iniziato formazione e abilitazione professionale e nella città dove vivono s’è aggregata una comunità afghana più numerosa.

A Parisa resta però una grave ombra: una delle figlie è in Iran, ha una bimba piccola e le sta scadendo il visto. Gli operatori di Nove stanno provando insieme con i loro partner di Arci a inserirle nei prossimi corridoi umanitari. «La mia speranza – conclude Parisa - è riuscire a portarle in salvo e vivere insieme in un Paese libero, dove il rispetto delle proprie tradizioni non sia a spese delle donne e il futuro sia una realtà possibile».