Chiesa

La frattura tra ortodossi. Tra religione e politica, isolare la Russia è impossibile

Fulvio Scaglione martedì 18 dicembre 2018

Il presidente ucraino Petro Poroshenko, Il metropolita Epiphanius e il Metropolita Emmanuel ( Ansa)

Stupirsi adesso perché la questione religiosa, in Ucraina, è diventata una questione politica aperta a ogni sorta di speculazione, sarebbe a dir poco ingenuo. Innanzitutto per ragioni storiche. Le Chiese ortodosse autocefale sono sempre state, e sono tuttora, per loro natura, Chiese nazionali e anche nazionaliste. Nel senso che il cosiddetto “territorio canonico” coincide di solito con i confini della nazione, che è anche il principale obiettivo e la fondamentale preoccupazione di ogni singola Chiesa ortodossa. Gli esempi sono infiniti, a partire da quello forse più noto.

Ovvero l’appello che Sergij, metropolita di Mosca, il 22 giugno del 1941 rivolse al popolo russo affinché resistesse all’invasione nazista e salvasse i destini della patria. Parole che andavano in soccorso di Stalin, che per vent’anni aveva ferocemente perseguitato la Chiesa ortodossa russa, ma che erano dettate non da servilismo (nello stesso appello, il metropolita sottolineava le difficoltà del regime sovietico e ribadiva il ruolo esclusivo della Chiesa quale garante dell’identità spirituale del popolo russo) ma, piuttosto, dall’atteggiamento tradizionale delle gerarchie ortodosse.

Per venire ai giorni nostri: nel 1993, quando Boris Eltsin fece assaltare il Parlamento ribelle, il patriarca Alessio II fece svolgere un’imponente processione «per la pace» che era, in quelle circostanze, un invito a sostenere il presidente. E la sintonia tra Vladimir Putin e l’attuale patriarca Kirill è cosa ben nota. La seconda ragione per cui non dobbiamo stupirci delle recenti svolte sta in questa considerazione: almeno dal 1990, cioè da quando l’Ucraina è tornata indipendente, la religione è sempre stata il campo di una battaglia politica. Vero, lo scontro tra Mosca e Kiev si è fatto aperto, addirittura in senso bellico, dopo la cosiddetta “rivoluzione di Maidan” del 2013-2014. Ma i suoi germi sono sempre stati presenti.

Le tre Chiese ortodosse ucraine, in tutti questi anni, hanno rappresentato posizioni assai diverse. La Chiesa ortodossa ucraina, con 12 mila parrocchie la più consistente finora, quella della continuità storicopolitico- religiosa con la Russia e con l’autorità del patriarcato di Mosca. La Chiesa ortodossa ucrainapatriarcato di Kiev quella invece della discontinuità in nome della sovranità ucraina. L’aveva fondata il metropolita Filaret, nato nella regione di Donetsk, il candidato sconfitto da Alessio II nel 1990 (e si mormoravano molte cose, su quell’elezione) nella corsa al patriarcato moscovita. Ebbi occasione di intervistare Filaret a Kiev nei primi anni Novanta, poco dopo la nascita della “sua” Chiesa, e l’intonazione nazionalistica e antirussa era già allora assai spiccata.

E poi c’era la Chiesa autocefala ucraina, erede e rappresentante della diaspora antisovietica, ancor più decisa nel reclamare la più ampia presa di distanza da Mosca e da qualunque retaggio del passato. Se a tutto questo aggiungiamo il ribaltone politico del 2014 (quando il presidente filorusso Viktor Yanukovich fu rovesciato da quella che molti considerano una rivoluzione e altri un colpo di Stato ispirato dagli Usa), la riannessione della Crimea da parte della Russia, la guerra nel Donbass e le ambizioni ucraine verso la Ue e la Nato, quanto accade oggi risulta solo una naturale conseguenza.

Se la Chiesa ortodossa russa, con i richiami all’unità canonica sotto il patriarcato di Mosca, faceva gli “interessi” del Cremlino, la neonata Chiesa ortodossa ucraina (patriarcato ecumenico), nominalmente guidata dal trentanovenne metropolita Epifanyj, una creatura della vecchia volpe Filaret, è fin d’ora un alleato prezioso per il presidente Petro Poroshenko e un potente megafono della campagna per la sua rielezione nelle presidenziali del prossimo marzo. La guerra tra Russia e Ucraina continua, insomma. La differenza sta nel fatto che si è aggiunto un nuovo fronte dove, con ogni probabilità, avremo altre scissioni e dispute che lacereranno i fedeli ortodossi. Il dramma più vero e sottile, però, potrebbe essere quello della Chiesa ortodossa nel suo complesso. La Chiesa ortodossa ucraina (patriarcato ecumenico), cioè la nuova Chiesa autocefala, non avrebbe potuto nascere senza l’autorevole appoggio di Bartolomeo, il patriarca ecumenico che risiede a Costantinopoli. Si era capito che aria tirasse fin da quando, per le verifiche “sul campo”, aveva scelto due vescovi nordamericani. Poi il 12 ottobre Bartolomeo si era detto favorevole all’autocefalia e il 29 novembre aveva posto il sigillo dell’ufficialità.

A quel punto i rapporti con il patriarcato di Mosca, già tesi, sono precipitati. Il patriarca moscovita Kirill ha denunciato lo «scisma» e ha annunciato di non riconoscere più alcuna autorità alle decisioni del patriarca ecumenico Bartolomeo. Non che prima la sostanza fosse molto diversa, la diffidenza reciproca era esplosa già nel 2000, quando Bartolomeo aveva concesso l’autocefalia alla Chiesa ortodossa dell’Estonia, altro Paese in urto con la Russia. Ma ora il distacco della Chiesa ortodossa russa è ufficiale. Il problema è che quella russa è di gran lunga la Chiesa ortodossa più corposa e potente e con i suoi almeno cento milioni di fedeli costituisce poco meno della metà del gregge ortodosso mondiale. Isolarla è come isolare la Russia: impossibile.