Chiesa

STORIE DI AVVENIRE / 2. Gheddo: Natale nelle terre di missione lezione di vita

Piero Gheddo domenica 25 dicembre 2011
Ho trascorso diversi Natali in missione. Ne ricordo tre che ne esprimono il significato in diverse sottolineature: che il Bam­bino Gesù porti a tutti la pace e la serenità di vita; che ci faccia ritrova­re l’entusiasmo della fede per esse­re anche noi missionari di Cristo; che ci stimoli a non dimenticare i pove­ri, in ciascuno dei quali c’è Gesù. I FUOCHI DEL VIETNAM Il Natale ispira pensieri di pace, ma vi sono tante guerre nel mondo. Ho passato diversi Natali in guerra. Ri­cordo il più drammatico, quello del 1967 in Vietnam. Ero a Kontum, la città più importante degli altopiani del Vietnam del Sud, attorno a cui ha infuriato per lunghi anni la guerra. Il vescovo monsignor Paul Seitz mi di­ce: «Ti mando a passare il Natale a Dak-To, dove da più di tre mesi non riusciamo ad andare perché la guer­ra ha tagliato la strada. Là c’è un mis­sionario francese isolato con i suoi cristiani, sarà contento che tu vada a trovarlo nei tre giorni di tregua». Così sono partito con una jeep del­la missione, un padre francese dei Mep (Missions Etrangères de Paris) e due giovanotti. Abbiamo impiega­to tutta la mattina della vigilia di Na­tale per fare gli 80 chilometri fra Kon­tum e Dak-To: una strada piena di buche, diversi villaggi bruciati, la gente era sulla strada e ci salutava, portavamo sul fronte della jeep due croci bianche. La tregua era ben ri­spettata, ai posti di blocco dell’eser­cito sudvietnamita e dei vietcong passavamo facilmente. Quando siamo arrivati a Dak-To, nel pomeriggio, padre Arnould ci acco­glie a braccia aperte. Gli portiamo la posta, un po’ di medicine e altri rifor­nimenti. Il grosso villaggio di Dak­to, a fondovalle, è tutto imbandiera­to: quella povera gente, circa 2mila tribali venuti dalle foreste vicine, cer­ca di dimenticare, almeno per pochi giorni, che c’è la guerra. L’indomani sarebbe stata una giornata memo­rabile, con danze, musiche, giochi popolari, cerimonie religiose. E so­prattutto una giornata di pace. Ma mentre il cielo sta scolorendo e luc­cicano le prime stelle della notte di Natale ecco che, come un fulmine a ciel sereno, un tonfo improvviso, ag­ghiacciante, rompe la quiete della notte. Un tuono? Un colpo di mor­taio? Usciamo correndo all’aperto e si spalancano le cateratte dell’infer­no, il cielo s’infiamma di lampi, la terra trema per i colpi di maglio di un’artiglieria che sembra impazzita. La tregua è rotta, avremo un altro Natale di guerra. Il villaggio di Dak-To è nella valle, con americani a destra e nordviet­namiti sulle colline di sinistra che si sparano sulla nostre teste: nella not­te buia, le strisce luminose dei proiettili infuocati attraversano il cielo e scoppiano sulle colline di fronte. Se non fossero scoppi di mor­te, sembrerebbe uno spettacolo di fuochi d’artificio, nella notte in cui è nato il Signore. Che notte santa ab­biamo passato. E che Messa di mez­zanotte, con i Banhar tremanti, don­ne e bambini con gli occhi lucidi e imploranti: «Signore, salvaci da que­sto inferno». Verso le quattro di mattino, un uffi­ciale americano viene a dirci che dobbiamo metterci in cammino ver­so le linee sudvietnamite, perché, presi di sorpresa, non potevano te­nere a lungo il fronte. Il giorno di Na­tale 1967, duemila persone in fuga verso Kontum: uomini, donne, bam­bini, malati, vecchi, su carri agrico­li, a piedi, con i bufali e i pic­coli cavalli delle montagne vietnamite. La fuga, più volte bloccata dai combattimenti, dura cinque giorni: solo in 1.800 giungono a Kontum, con numerosi feriti. Quando nella notte di Natale noi cantiamo con gli angeli «Gloria a Dio nell’alto del cie­li e pace in terra agli uomini che egli ama», ricordiamoci che nel mondo sono in corso una ventina di guerre grandi e piccole: sono il segno del­l’egoismo dell’uomo, della nostra mancanza di amore. Siamo tutti re­sponsabili delle sofferenze che la guerra porta a milioni di fratelli e so­relle. LA MUSICA DEL CIAD In Ciad, povero Paese appena a Sud del deserto del Sahara, la maggio­ranza della popolazione è costituita da musulmani o animisti, i cristiani piccola minoranza. Ma il Natale è vissuto da tutti come una festa. La capitale Ndjamena è una città del deserto, caldo e sabbia anche a Na­tale. La chiesa parrocchiale del quar­tiere periferico di Kabalaye, costrui­ta e gestita dai gesuiti lombardi, è un’imponente costruzione ad anfi­teatro, con una cupola ovale dalle ar­dite nervature in leghe metalliche leggere, le mura in cemento armato, il tetto di fogli di plastica. Nella vigi­lia del Natale 1976, il vasto cortile e la chiesa si riempiono di popolo, co­munità di villaggio che vengono an­che da lontano. A sera, quando man­ca ancora un’ora all’inizio della Mes­sa, già nella chiesa non entra più nes­suno e nel cortile sono accampati centinaia di fedeli. La gioia della festa e del ritrovarsi as­sieme esplode ben prima di mezza­notte. Il popolo cristiano, che viene da un anno di isolamento, fatiche e miserie, si scatena nel canto, nelle danze, nella percussione dei tam­buri e dei balafon, nel suono dei pif­feri. L’interno della chiesa di Kaba­laye è un mare in tempesta: la gen­te canta tutta assieme, molti danza­no, ciascuno fa più rumore che può battendo ritmicamente le mani e i piedi per terra nell’accompagnare i canti della corale, i nostri antichi canti natalizi tradotti nelle lingue lo­cali. La gioia è straripante, conta­giosa, acre e densa la polvere che si alza dal pavimento, il ritmo dei tam­buri e dei balafon travolgente. In sacrestia siamo quattro sacerdo­ti pronti ad uscire per la Messa. Ma come si fa, in quella baraonda? Il massiccio e torreggiante fratel An­tonio Mason sale sull’altare, ab­branca il microfono, fa segni impe­riosi di tacere e grida: «Silenzio! Ba­sta! » nelle tre o quattro lingue afri­cane che conosce, oltre che in fran­cese. Ma nessuno se ne dà per inte­so. La sua voce possente è ridicoliz­zata dal frastuono che quelle centi­naia di africani producono tutti as­sieme. Cupola e pareti della chiesa tremano, sembra stia per crollare l’intera struttura del grande anfiteatro di Ka­balaye. Antonio torna in sa­crestia sconfitto, sudato, sgo­lato. «Lasciamoli sfogare an­cora un po’», dice. Non si può fare altro. Intanto, quella fon­te di decibel impazziti che è la parrocchia di Kabalaye (chiesa e cortile), ha attirato un’ondata di cu­riosi musulmani e animisti. Vengo­no a vedere l’esplosione di gioia che il Natale è capace di suscitare nel po­polo cristiano. «Ecco un modo ori­ginale di annunziare il Vangelo in A­frica – dice il parroco, padre Corra­do Corti –. Sono convinto che que­sta espressione autentica dell’unità e della gioia di un popolo, per i mu­sulmani e gli animisti vale più di tut­te le nostre prediche sul Natale». I DONI IN GUINEA-BISSAU Natale 1987. Sono in Guinea-Bissau, povero paese dell’Africa occidenta­le. La notte di Natale vado con padre Giuseppe Fumagalli, missionario del Pime, a celebrare la Messa in un vil­laggio della tribù felupe, Edgin: un villaggio isolato nella foresta, dove c’è una bella chiesa in muratura. La chiesa strapiena di gente giunta an­che dai villaggi vicini: sono venuti anche i musulmani e gli animisti per vedere la festa dei cristiani. Notte stellata d’incanto, con canti, danze, scambio di abbracci, testimonianze al microfono di felupe che, prima della Messa, raccontano il cammi­no compiuto per giungere al Batte­simo. Quando andavo in paesi poveri por­tavo sempre due chili di caramelle i­taliane. Quella notte di Natale, Fu­magalli mi dice: ci saranno una cin­quantina di bambini. Ne ho portate sessanta. Dopo la Messa, dinanzi al­la chiesa, alla luce di due fari poten­ti, padre Giuseppe chiama tutti i bambini e dice loro di mettersi in fi­la perché io avrei dato a ciascuno u­na caramella. Grida di gioia, eccita­zione, salti di esultanza. Ma i bam­bini escono da tutte le parti e io ve­do subito che sono ben più di ses­santa. «Niente paura», dice padre Giuseppe e fa mettere i ragazzi a due a due. Così passo col mio sacchetto dando una caramella ogni due bam­bini, che la scartocciano e la suc­chiano un po’ l’uno e un po’ l’altro, senza bisticciare, dividendosi il pic­colo dono proprio come fratelli. Mentre li guardo succhiarsi una ca­ramella in due, penso: in questa not­te di Natale, in Italia, nella mia Mila­no, i bambini hanno molto di più, doni, dolci, musiche, regali, ma spes­so non trovano un fratellino con cui condividere quei doni. Mi chiedo: saranno felici come questi piccoli a­fricani, che hanno gli occhi lucidi dalla gioia, seduti per terra a divi­dersi una caramella in due? La parola più comune usata in Guinea-Bissau è «parti», di origine portoghese, che significa dividere, condividere. Nel­la povertà, tutto è comune, c’è la spontanea condivisione di quel po­co che si ha. A me è capitato di do­ver attendere il traghetto per quasi un’intera giornata. Niente paura, in Africa bisogna saper aspettare. Per il cibo non c’è problema. Vi sedete vi­cino a chi sta mangiando e vi dà qualcosa con la massima naturalez­za, senza nemmeno dover chiedere. Perché i popoli poveri sono più di­sponibili alla condivisione di noi che siamo ricchi? È facile rispondere: chi è povero ha poco da perdere, chi è ricco perde molto, è più attaccato a quello che ha. Ma c’è un motivo più profondo: la povertà educa a capire l’altro, a essere ospitali e attenti ver­so chi soffre. Direi che educa anche alla gioia, alla serenità della vita. Non parlo della povertà disumana che di­venta miseria e mancanza del ne­cessario, ma del non avere troppo, del non essere attaccati alle ricchez­ze materiali, del dare più importan­za ai valori umani (fraternità, amici­zia, condivisione, aiuto al prossimo) che non all’inseguimento del dena­ro e del superfluo. L’egoismo è la tomba di ogni gioia e serenità di vi­ta. E i ricchi attaccati alle loro ric­chezze sono, molto spesso, più e­goisti dei poveri. Ecco perché Gesù dice «Beati voi poveri, perché Dio vi darà il suo Regno».