Chiesa

Internet. Sui social per incontrare e ascoltare. E non da narcisi indignati

Gigio Rancilio sabato 1 giugno 2019

(immagine Zoo/Corbis)

E adesso? Da dove parto per mettere in pratica sui social, su WhatsApp o su Messenger, il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali?

Cominciamo col dire che non abbiamo scuse. È talmente ricco e chiaro che va dritto al punto in 1.473 parole (firma compresa). In estrema sintesi. La Rete è una grande occasione di incontro ma può amplificare l’autoisolamento. Le “comunità digitali” spesso aggregano le persone «intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli». Mentre «troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione». Cioè, «ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce». Così, quella che dovrebbe essere una finestra sul mondo diventa «una vetrina in cui esibire il proprio narcisismo».

Sono verità che chiunque frequenti la Rete conosce bene. Ma quello che ci chiede papa Francesco va più in là. Ci chiede innanzitutto di rispettare la verità e di rispettare gli altri. Di considerare anche i nemici persone. Ci chiede di dare testimonianza del nostro bisogno, spirituale oltre che fisico, «di vivere in comunione, di appartenere a una comunità». Ci chiede di custodire anche in Rete una comunione di persone libere, ricordandoci che «la Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».

Accogliere e fare comunità sono parole che chi vive e frequenta il mondo cattolico conosce molto bene. Eppure girando per le pagine social dei credenti sembra che ce le siamo un po’ dimenticate. E che siamo caduti in uno dei problemi più grandi della comunicazione: anche quando (di rado) ascoltiamo non lo facciamo per capire ma per essere pronti a rispondere. Ci interessa fare bella figura, come se fossimo dei concorrenti di un quiz. Le ragioni degli altri sembrano non interessarci e tantomeno vogliamo cercare di capirle. Siamo tutti così presi dalla voglia di sfogarci e di dire ciò che pensiamo su ogni cosa, da dimenticarci cosa significhi essere comunità.

Eppure – come scrive Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, nel prezioso volume “Dalle communities alle comunità”, edito da Morcelliana e curato dall’Ufficio comunicazioni della Cei –- il Messaggio di papa Francesco ci ricorda che «siamo tutti coinvolti». Sta a noi – scrive Ruffini – «restituire alla Rete il suo significato più bello, e più legato alla natura dell’uomo: la bellezza dell’incontro, del dialogo, della conoscenza, della relazione, della condivisione».

Nessuno può chiamarsi fuori. Proprio perché siamo sempre più interconnessi ogni nostra azione digitale produce degli effetti. Positivi o negativi. Abitare la Rete da cristiani significa ricordarci chi siamo, qual è il nostro “stile”, quali sono le nostre “responsabilità” e il nostro “messaggio”.

Dobbiamo passare dal “like” all’“amen”. Ma come ben sottolinea nel volume sopraccitato il professor Pier Cesare Rivoltella non significa che dobbiamo passare dai social alla realtà (tantopiù che i social sono parte della nostra realtà). «Ma che anche la community digitale può preparare, costruire, ricostruire la comunità solo se la logica sulla quale si fonda è quella dell’amen e non del like». Della comunione, non del narcisimo.

Tornando alla domanda iniziale: da dove parto per mettere in pratica sui social, su WhatsApp o su Messenger il Messaggio del Papa? Io partirei da qui: facciamoci un po’ più piccoli, sgonfiamo un po’ il nostro ego e allarghiamo le nostre orecchie e il nostro cuore per ascoltare prima gli altri che noi stessi.

Proviamo a trasformarci da indignati a seminatori di bene. Di idee, esperienze e parole che uniscono.