Chiesa

LA VISITA IN LIBANO. Samir Khalid: «Il Papa ci testimonia che non c'è concordia senza Dio»

Giorgio Paolucci venerdì 14 settembre 2012
«Arriva in Libano un Papa che testimonia, con la sua vita e il suo magistero, che solo riconoscendo che ogni uomo ha bisogno di Dio si può costruire la concordia tra i popoli. Nulla accade per caso, e questo viaggio è davvero provvidenziale. Dopo quello che è accaduto a Bengasi, è ancora più grande l’attesa per le parole di Benedetto XVI». Il gesuita Samir Khalil Samir, studioso dell’islam di fama mondiale, è anche uno degli esperti che ha lavorato a fianco del Papa durante il Sinodo per il Medio Oriente. Il Sinodo si è svolto un anno prima dell’inizio della Primavera araba in Tunisia. E durante i lavori sono echeggiati temi poi divenuti parte integrante dei processi di cambiamento. Una coincidenza o una profezia?È la dimostrazione che la Chiesa che vive in Medio Oriente è profondamente radicata nella società, ne avverte le tensioni e le istanze. In poche parole, la Chiesa ha il polso della situazione. La domanda di libertà è presente da molto tempo nel mondo arabo, e i cristiani ricordano che la libertà di coscienza e di fede è un nervo ancora scoperto. Non pretendiamo favori, vogliamo venire riconosciuti come cittadini a pieno titolo, non di seconda categoria. Per questo chiediamo la possibilità di testimoniare e annunciare il Vangelo così come i musulmani fanno con il Corano.Dunque la promessa di libertà delle primavere arabe si è rivelata un’illusione?Migliaia di giovani sono scesi in piazza mossi da istanze condivisibili e ampiamente diffuse nella società, ma poi alla protesta spontanea sono subentrate le forze organizzate, in particolare quelle a connotazione islamista, e lo spirito iniziale è andato perdendosi. In Tunisia la condizione della donna sta facendo passi indietro, in Egitto viene salutata come un progresso la presenza di annunciatrici velate nei telegiornali, in molti Paesi è pericoloso portare la croce sul petto. E anche ciò che è accaduto in Libia denota una situazione di grande fragilità. In generale si rischia di passare da una dittatura politica, che per tanti anni ha tenuto il popolo sotto il suo tallone, a una di stampo religioso. I cristiani chiedono una società di eguali, che non sia basata sull’appartenenza religiosa.Il Libano, con la sua lunga storia di convivenza tra fedi e culture diverse, può rappresentare un riferimento?Qui da noi in Libano la convivenza nella diversità è la normalità. Sciiti, sunniti, drusi, cristiani di diverse confessioni vivono uno accanto all’altro, vengono riconosciute le feste cristiane come quelle musulmane, c’è un equilibrio di presenze a livello politico e istituzionale. Un equilibrio non perfetto, ma che garantisce stabilità. Certo i problemi non mancano, però le dispute non avvengono per motivi religiosi ma politici. L’equilibrio libanese è messo in pericolo dalla crisi siriana?Ci sono dei rischi: la frontiera è facilmente attraversabile, sia dai profughi sia da chi fa circolare armi e personale militare, specialmente gruppi di estremisti sunniti. I cristiani che arrivano qui hanno appoggi tra conoscenti e amici; se vinceranno i ribelli si rischia un arrivo massiccio di alauiti. Ma il problema più grave è il passaggio di gente armata, su cui l’esercito libanese veglia come può.Il Sinodo per il Medio Oriente ha indicato ai cristiani due parole-guida: comunione e testimonianza. A suo giudizio come sono state declinate in questi due anni?Premesso che l’unità dei cristiani è la "conditio sine qua non" perché non spariscano dal Medio Oriente, devo dire che a livello di base vedo un ecumenismo praticato nella vita quotidiana, le differenze teologiche o liturgiche tra le diverse confessioni non creano problemi. Nel clero le relazioni tra gruppi sono invece piuttosto deboli, non c’è contrasto ma piuttosto indifferenza. Le divisioni tra cristiani emergono a livello politico, ma questo accade anche da voi in Italia. Per la testimonianza c’è ancora molta strada da fare. È vero, facciamo i conti con istituzioni islamicamente connotate, ma dobbiamo avere più coraggio, essere testimoni del Vangelo anche di fronte ai musulmani. È una testimonianza fatta per amore. Non per avere più adepti, ma perché anche i nostri fratelli musulmani possano scoprire la bellezza del Vangelo, la sua forza liberatrice. In questi giorni ho incontrato un gruppo di giovani per presentare il viaggio del Papa, c’erano diversi convertiti al cristianesimo, persino un ex terrorista che quando ha incontrato Gesù ha capito che doveva cambiare vita.