Chiesa

L'analisi. Quel bisogno diffuso di condivisione

Chiara Giaccardi lunedì 29 settembre 2014
Inaugurare il cammino di Firenze 2015 con un «Invito» a raccontarsi era una mossa certamente un po’ rischiosa, ma la risposta ha sorpreso tutti: ben oltre duecento tra testimonianze ed esperienze, da parte di diocesi e altri soggetti ecclesiali, e molte altre continuano ad arrivare. Come leggere questo primo segnale di partecipazione? Certamente sullo sfondo c’è un bisogno reale di uscire dai propri confini e incontrarsi, per poter meglio rispondere alle complesse sfide del presente. Ma dai contributi pervenuti emerge molto di più: una grande vitalità, una capacità di leggere con sensibilità i bisogni, specie quelli delle fasce più fragili, e immaginare percorsi di inclusione e valorizzazione. La fotografia del Paese che ne risulta è molto diversa da quella che ci restituiscono i rapporti periodici, basati sulle statistiche (ovvero sulla compilazione di questionari formulati col linguaggio di chi ricerca, anziché di racconti di sé espressi nel linguaggio di chi vive): nessuna traccia di un Paese stanco e apatico, o incapace di trovare rappresentanza e canali dove esprimere un pur rinnovato bisogno di socialità e solidarietà, come tanto spesso ci sentiamo rappresentare.Le risposte della Chiesa di base alle sfide di oggi sono vere e proprie indicazioni per nuove direzioni da intraprendere per il futuro della Chiesa. Intanto un metodo, che è quello del «ritmo salutare della prossimità» (<+CORSIVOA>Evangelii gaudium<+TONDOA> 169): camminare con il passo dei più deboli regala uno sguardo sollecito e attento, solo grazie al quale è possibile vedere ciò che, nel ritmo veloce dell’efficienza, sfugge completamente: il valore pedagogico della fragilità, anche per chi fragile non è, o non sa di essere. La cura non è mai un movimento a una direzione, ma un luogo di reciprocità, che risveglia l’umanità di tutti.Saper leggere la realtà con questo sguardo innamorato dell’umano consente poi di trovare risposte innovative, inclusive, fuori dagli schemi, attente alla persona nella sua totalità e nella rete dei suoi legami dentro la comunità. Tornano in mente le parole di papa Francesco: la Chiesa non è una Ong. E qual è la differenza? Rispetto alle soluzioni «tecniche» per fronteggiare le emergenze si sente nella Chiesa il sapore di un «di più», di un’eccedenza, di una gratuità e di una gratitudine (e le due vanno di pari passo) che traggono il loro alimento dall’ascolto della Parola, e dalla consapevolezza che possiamo essere fratelli perché siamo figli.Le esperienze raccontate manifestano anche la consapevolezza del limite e tuttavia la fiducia che, come nella moltiplicazione dei pani e dei pesci, il risultato eccede sempre le nostre forze. L’importante è iniziare processi, dare credito a ciò che di positivo c’è, contrastare la globalizzazione dell’indifferenza con la sollecitudine che ci rende custodi l’uno dell’altro.Non c’è la teoria (modelli e progetti) e poi la pratica, ma un fare da cui si cerca di imparare per poter fare sempre meglio. Gli ambiti sono i più diversi: tutto ciò che riguarda la costruzione di prossimità, di inclusione, di ricucitura delle fratture tra i gruppi sociali, le generazioni, le diverse abilità, i gruppi etnici; la ricerca e sperimentazione di modi originali e solidali per affrontare la crisi, la custodia del creato, l’educazione alla cittadinanza e molto altro ancora. Senza compartimenti stagni, ma sperimentando soluzioni che, combinando diverse fragilità, producono paradossalmente una nuova energia. Esperienze di ordinaria umanità, che diventa gratuità eccedente perché si lascia illuminare dalla Parola. Questi contributi hanno costituito il punto di partenza per la stesura del documento preparatorio verso il convegno di Firenze, che, a sua volta, vuole essere una traccia capace di attivare una nuova fase di partecipazione, per continuare il dialogo e approfondire il cammino intrapreso. Per ritrovare e rinnovare insieme la fiducia nell’umano, dai suoi tanti volti, alla luce di Gesù.