Chiesa

CONSIGLIO PERMANENTE. «La famiglia è il motore che deve muovere il Paese»

Card. Angelo Bagnasco lunedì 23 settembre 2013

Cari Confratelli. 1. L’incontro del Santo Padre Francesco con i Vescovi Italiani. Abbiamo nel cuore l’eco di eventi che ci hanno segnato in modo provvidenziale e sui quali vogliamo meditare facendo – nella luce dello Spirito – il comunitario discernimento per il bene nostro e del nostro popolo. È la fedeltà al Signore che costantemente ci guida, e insieme la fedeltà all’uomo contemporaneo, rinnovando la passione per l’ora che Dio ci ha dato di vivere e di servire. Innanzitutto, si tratta dell’incontro che il Santo Padre Francesco ci ha donato in San Pietro nella Assemblea Generale di maggio. Gli siamo profondamente grati e, se per Lui è stato uno dei momenti più belli dei primi mesi di Pontificato, sappia che anche per noi è stato un momento che ci ha rigenerati con la sua parola incoraggiante, con le indicazioni che ci ha dato, con il significato dei gesti e il calore del saluto che – dopo quello generale – ha voluto portare personalmente a ciascuno di noi. Insieme alla ricca meditazione che Egli ha condiviso paternamente, ci ha dato tre precise direttive per il nostro cammino sulle quali – in questo Consiglio – dedicheremo largo spazio per il discernimento: si tratta in primo luogo del “dialogo con le istituzioni culturali, sociali e politiche” che il Papa ha confermato essere compito di noi Vescovi; poi, di come “rendere forti le Conferenze Episcopali Regionali perché siano voci delle diverse realtà”; e infine del numero delle Diocesi italiane, tema sul quale ha lavorato un’apposita Commissione episcopale, su richiesta della competente Congregazione per i Vescovi. L’altro evento che non possiamo non ricordare, è la Giornata Mondiale della Gioventù nel suo duplice, incancellabile messaggio: quello del Santo Padre con la sua presenza, le sue parole, i gesti eloquenti. E quello che ci è giunto direttamente dai giovani.2. La GMG e il Magistero del Papa. Dopo aver dato il benvenuto alla “grande festa della fede”, Papa Francesco ha esortato i giovani a “mettere Cristo” al centro della loro vita: scopriranno un amico affidabile, vedranno crescere le ali della speranza nella via verso il futuro, e la vita sarà feconda perché piena di amore (cfr Festa di accoglienza, Copacabana, 25.7.2013). Ma “la fede è intera”, e quindi non si può “frullare”: “È la fede nel Figlio di Dio fatto uomo, che mi ha amato ed è morto per me (…) E allora fatevi sentire (…) Io voglio che vi facciate sentire nelle Diocesi, voglio che si esca fuori, voglio che la Chiesa esca per le strade (…) Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori…, se non lo fanno diventano una ONG e la Chiesa non può essere una ONG. Che mi perdonino i Vescovi e i sacerdoti, se alcuni dopo vi creeranno confusione. È il consiglio. Grazie per ciò che potrete fare” (Incontro con i giovani argentini, 25.7.2013). Entrando nel cuore della missione della Chiesa, e quindi della sua missionarietà, il Papa ne ha richiamato la sorgente sempre viva e zampillante: “Una Chiesa che fa spazio al mistero di Dio; una Chiesa che alberga in se stessa tale mistero, in modo che esso possa incantare la gente, attirarla. Solo la bellezza di Dio può attrarre. La via di Dio è l’incanto che attrae (…) Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Egli risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza. La missione nasce proprio da questo fascino divino, da questo stupore dell’incontro” (Incontro con l’Episcopato brasiliano, 27.7.2013). Come i Dodici di duemila anni fa, anche noi oggi ci sentiamo impari e inadeguati. E, nonostante l’impegno di percorrere le vie della evangelizzazione, riscontriamo non senza sofferenza le insufficienze, e a volte la scarsità del raccolto visibile. Ma il Successore di Pietro ci conferma: “Le reti della Chiesa sono fragili, forse rammendate; la barca della Chiesa non ha la potenza dei grandi transatlantici che varcano gli oceani. E tuttavia Dio vuole manifestarsi proprio attraverso i nostri mezzi, mezzi poveri, perché sempre è Lui che agisce” (id.). Come a dire che la nostra povertà è la nostra vera forza, poiché Dio abita nella nostra indigenza: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Per questo, lo scoraggiamento non deve trovare spazio nel cuore dei discepoli del Signore, tanto meno di noi Pastori chiamati a “vegliare per il gregge, (a) fare la veglia, (a) curare la speranza, che ci sia sole e luce nei cuori, (a) sostenere con amore e pazienza i disegni di Dio che attua nel suo popolo” (Papa Francesco ai Rappresentanti Pontifici, 21.6.2013). Così come non dobbiamo farci avvolgere dalla logica distruttiva del lamento: “Non bisogna cedere al disincanto, allo scoraggiamento, alle lamentele” (Incontro con l’Ep. Brasiliano cit.). “Davanti allo scoraggiamento che potrebbe esserci nella vita, in chi lavora all’evangelizzazione oppure in chi si sforza di avere la fede come padre e madre di famiglia, vorrei dire con forza: abbiate sempre nel cuore questa certezza: Dio cammina accanto a voi, in nessun momento vi abbandona! Non perdiamo mai la speranza! (…) Il ‘drago’, il male c’è nella storia, ma non è lui il più forte. Il più forte è Dio, e Dio è la nostra speranza!” (Omelia ad Aparecida, 24.7.2013). Sempre in questo orizzonte, è importante ricordare il criterio che deve illuminare tutta la vita missionaria della Chiesa, e che il Santo Padre ha indicato parlando al CELAM: “La missione continentale si proietta in due dimensioni: programmatica e paradigmatica. La missione programmatica consiste nella realizzazione di atti di indole missionaria. La missione paradigmatica, invece, implica il porre in chiave missionaria le attività abituali delle Chiese particolari” (28.7.2013). Come ci siamo detti altre volte, il primo atto missionario è la nostra anima missionaria, il “come” agiamo, cioè il vivere in modo missionario la pastorale ordinaria. Per crescere nel compito di evangelizzazione, sarà certamente utile, a suo tempo, un comune discernimento alla luce di un altro criterio che il Santo Padre ha ricordato: “La Chiesa si renda conto di come le ragioni, per le quali c’è gente che si allontana, contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno” (Incontro con l’Ep. Brasiliano, cit.). 3. La GMG e il messaggio dei giovani. Abbiamo l’immagine ancora viva negli occhi, e soprattutto nel cuore, dei tre milioni di giovani convenuti a Rio de Janeiro da 178 Paesi. Un popolo di giovani che ha risposto all’invito del Papa. Parlo di popolo, non di moltitudine, perché un popolo si forma e vive attorno a qualcosa di grande, qualcosa che è invisibile ma che è più reale e forte di ciò che si vede. È la potenza e il fascino dello spirito. Questo “qualcosa” in loro era un desiderio diventato speranza: il desiderio di incontrare Gesù, di incontrare qualcosa di bello e di grande per poter “giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta” (A. Camus, Il mito di Sisifo, cap. 1). Qualcosa di grande per cui si possa anche morire, perché solo così è possibile vivere. Questo segreto desiderio, che ancora una volta è stato il richiamo invisibile dai quattro angoli della terra, era il desiderio di incontrare Cristo e il suo araldo – il Papa –, che come Giovanni Battista è l’amico dello Sposo, la voce della Parola di vita, la lampada che porta la Luce vera. Sono giornate che hanno lasciato il segno: per gli uni sono state una gioiosa conferma e un incoraggiamento; per altri un promettente risveglio; per altri ancora un inizio di cammino verso una meta intravista e che desta fascino e nostalgia. Dio solo conosce le vie dell’uomo e le percorre come il buon Pastore. Vogliamo qui ringraziare gli organizzatori della GMG, e i nostri cari sacerdoti che hanno accompagnato i loro giovani. Questo popolo giovane ancora una volta ha testimoniato che i giovani nella Chiesa ci sono, che Dio è presente nel mondo, che l’umanità ne sente il bisogno, che “la Chiesa accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente (…). Che Gesù diede calore al cuore dei discepoli” (Papa Francesco, Incontro con l’Ep. Brasiliano, cit). La forte emozione, il brivido che ha attraversato quel popolo nell’avvicinarsi del Santo Padre al raduno delle Nazioni, non era lo stesso che si prova davanti ad un personaggio della terra, ma qualcosa di diverso. Nasceva dall’intuizione di essere davanti al Successore di Pietro, al Vicario di Cristo come gli altoparlanti scandivano. Si vedeva un fiume di gente che desiderava semplicemente di “esserci”, perché sapevano che, comunque, sarebbe accaduto un incontro. Ma quell’immenso raduno ha ammaestrato anche noi Vescovi! Ci ha detto che i giovani sono vicini ai loro Pastori, lo sono con simpatia, anzi con affetto; che hanno fiducia, che vedono nella Chiesa la loro famiglia; che possono dire, con G. Bernanos: “Nella Chiesa io mi sento a casa mia!”. E ci hanno chiesto, con la potenza contagiosa della loro giovinezza, una cosa semplicissima, umana e divina insieme: ci chiedono di stare con loro. Uno “stare con loro” che rispecchia la compagnia di Gesù e che rimanda a Lui; che prolunga lo stile dell’incarnazione di Dio, il quale ha piantato la sua tenda nel mondo e dimora tra le case degli uomini per poter albergare nel cuore di ciascuno. Essi non vogliono essere esclusi dall’avventura né della vita né della Chiesa, ma vogliono imparare a vivere “decentrati” su Cristo “sine glossa”, sul Vangelo senza letture ideologiche né di tipo pelagiano né di tipo gnostico, di vivere la Chiesa senza storture funzionaliste o clericalismi (cfr Discorso al CELAM cit. n. 4): “La posizione del discepolo missionario non è la posizione di centro bensì di periferie. (…) Il discepolo missionario è un ‘decentrato’: il centro è Gesù Cristo che convoca e invia” (id.). Questa richiesta è giunta a tutti noi Pastori consapevoli che “i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia” (Papa Francesco, Intervista a Civiltà Cattolica). È giunta accorata e simpatica attraverso la testimonianza di gioia e generosità, di impegno e sacrificio, di preghiera e di allegra fraternità. Siamo a loro grati, e nel contempo ci sentiamo di riandare al cuore della nostra vocazione che ci chiede una forte coerenza, e alla nostra missione di aiutare le anime a scoprire l’amore misericordioso di Dio apparso sulla croce di Cristo. La vostra richiesta incoraggia noi e i nostri sacerdoti, cari giovani, ci invita a non cedere alla tentazione dello scoramento quando non vediamo i frutti, quando ci sembra di non trovare le vie di accesso ai vostri cuori. E ci sprona a starvi accanto con lo stile del buon pastore, che con pazienza percorre ogni via per cercare il suo gregge, con mitezza lo richiama, con misericordia lo accoglie. Che si pone davanti per dare l’esempio, in mezzo perché resti unito, dietro perché nessuno rimanga indietro, “e perché lo stesso gregge ha, per così dire, il fiuto nel trovare la strada” (Papa Francesco, Discorso ai Rappresentanti Pontifici, cit). Insieme a voi, ringraziamo i nostri sacerdoti che – nelle parrocchie, associazioni, movimenti e nuove comunità – vi sono a fianco come padri e fratelli. E li incoraggiamo, sapendo che la prima forma di apostolato giovanile – dopo la preghiera e la testimonianza – è esserci, è stare con voi. E ci sentiamo stimolati affinché le nostre Chiese possano migliorare le occasioni e le strutture per una formazione qualificata “che crei persone capaci di scendere nella notte senza essere invase dal buio e perdersi; di ascoltare l’illusione di tanti, senza lasciarsi sedurre; di accogliere le delusioni, senza disperarsi e precipitare nell’amarezza; di toccare la disintegrazione altrui, senza lasciarsi sciogliere e scomporsi nella propria identità” (Discorso all’Ep. Brasiliano, cit). 4. L’individualismo nella cultura. Una parola dobbiamo dirla anche sul momento storico che attraversiamo. La diciamo, come sempre, da Pastori, nell’intento di offrire un contributo alla lettura di un’epoca che non è di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca. La storia ci insegna a essere avveduti per saper discernere, nei cambiamenti culturali e sociali, ciò che è fondamentale e che quindi va custodito con cura. In mezzo ad un fermento di istanze positive, gioie e preoccupazioni – che ben conosciamo vivendo in mezzo alla gente – sentiamo il dovere di ricordare una radice avvelenata che non sempre è presa nella debita considerazione: il virus dell’individualismo. Il suolo umano, infatti, si sta impoverendo e si svuota di relazioni, legami, responsabilità, divenendo così friabile e inconsistente. Al punto che l’uomo stesso, su questo terreno, finisce per diventare “di sabbia”, una figura fluida con una pesante sensazione di stanchezza. È schiacciato dall’urgenza di farsi da sé in una competizione continua e lo Stato, sul piano giuridico, si trasforma in una sorta di nobile notaio dei desideri, delle istanze e forse delle pretese dei singoli. Il grande sogno dell’individualismo, che ha segnato l’uomo moderno, lo ha condotto nella post-modernità ad una imbarazzante scoperta: il sogno non ha tenuto! Ed egli si trova tristemente solo in un terreno fatto da una moltitudine di punti-io. Tutto ciò – come ben sappiamo – contraddice l’esperienza universale, per cui la prima esperienza della persona è l’esperienza del “tu” e quindi del “noi”. Questa viene prima dell’io o per lo meno l’accompagna. Quando i rapporti si allentano, e l’io si insedia fino ad avere il primato esclusivo, gli altri non sono più percepiti come prossimo ma come estranei, alieni e potenziali avversari: è il nucleo di ogni follia. Si può dire a ragione che la persona esiste soltanto nella misura in cui esiste per gli altri e, al limite, che essere significa amare. Sembra che il bisogno di sentirsi “vivi”, “al mondo”, non avvenga più attraverso la normalità delle buone relazioni quotidiane – in famiglia, nell’amicizia, nel lavoro…– ma nel brivido comunque acquisito, fino al disprezzo della vita propria e altrui. La prospettiva autoreferenziale, insofferente ai legami, porta con sé un carico di violenza che anche i drammatici fatti di cronaca, sempre più numerosi, testimoniano a partire dalla violenza sulle donne. Ci sembra che l’opinione pubblica abbia cominciato una specie di rimonta su questo versante culturale, riscontrando gli esiti catastrofici sul piano sociale, economico e politico. Ma bisogna invertire più in fretta la marcia del pensare per poter vedere gli effetti desiderati nella civile e serena convivenza. Perché ciò avvenga, sono necessari gli sforzi concentrati e costanti degli operatori culturali ed educativi ad ogni livello. Se le grandi manifestazioni dell’umano sono pensate in chiave autoreferenziale – per quanto mi danno di piacere e di convenienza immediata – è l’uomo a perdersi e il suo vivere insieme. La vita, l’amore, la libertà, la famiglia… sono alcuni di questi luoghi che esprimono, custodiscono e alimentano l’umano: il verme dell’individualismo li corrompe con la promessa di una felicità maggiore, ma ne vediamo da molto ormai gli esiti disumani. È veramente più felice l’uomo di oggi rispetto a ieri dove i rapporti si costruivano nella sequenza dei giorni, nel sacrificio e nella pazienza dell’amore? Nell’umiltà delle cose, senza la smania dell’apparenza e di un benessere illimitato? Dove la cultura dell’incontro e dei legami era il tessuto della vita e rendeva solida e affidabile la società intera? Senza il microcosmo della famiglia è impossibile vivere il macrocosmo della società e del mondo. Senza, infatti, l’uomo si trova sperduto, privo di punti di riferimento alla mano. È un aspetto di fondo su cui si è riflettuto nella 47a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, celebrata a Torino dal 12 al 15 settembre, con una larga partecipazione di Delegati (1300), con una schiera di Relatori di alto livello, e con il confronto e il dialogo nei gruppi monotematici. Ringraziamo tutti di cuore, in particolare il Comitato Scientifico con il suo Presidente, S.E. Mons. Arrigo Miglio, e il Pastore dell’Arcidiocesi, S.E. Mons. Cesare Nosiglia, nonché i nostri Uffici coinvolti.5. Lo scenario internazionale. Ma la cifra dell’individualismo avvelena anche gruppi e popoli. Ciò è visibile sullo scenario internazionale con aperte e continue forme di discriminazione e di intolleranza. In troppe parti del mondo la violenza, specialmente contro i cristiani, non solo continua ma addirittura sembra intensificarsi. Dio non vuole questo, e la comunità internazionale continua ad essere tiepida facendo finta di non vedere. Ai molti fratelli e sorelle perseguitati per la fede, diciamo la nostra calda vicinanza nella preghiera e in ogni altra forma di solidarietà; ma altresì eleviamo forte la nostra voce, perché il rispetto e la convivenza si affermino in modo chiaro e definitivo. L’individualismo, che assolutizza se stesso, è intollerante anche sul piano delle culture, e mostra il suo ghigno beffardo facendo prevalere gli interessi economici e politici di parte, senza tener conto del bene comune del pianeta, cioè dell’umanità con le sue differenti storie e condizioni. Se da una parte non si deve pretendere di omologare i popoli, dall’altra non si può approfittare delle differenze e delle debolezze per avvantaggiare se stessi. Una parola di sincera prossimità va alla Siria, alle centomila vittime dei combattimenti, ai due milioni di profughi, all’intera popolazione che da troppo tempo vive nella violenza e nella paura. Ma anche all’intero Medio Oriente, a cominciare dalla Terra Santa. Il Santo Padre Francesco ha più volte fatto appello alla via del dialogo e del negoziato, e ha voluto la giornata di digiuno e di preghiera per invocare la pace nella giustizia: è stata una ispirazione seguita non solo dai cattolici e dai cristiani, ma anche da credenti di altre religioni e da non credenti. Che il Signore doni saggezza ai responsabili delle Nazioni, sapendo che la guerra non produce la pace, ma genera violenza, odio, vendetta. Non possiamo dimenticare la recente visita del Papa a Lampedusa, meta di disperazione e di speranza per molti. Essa ha riproposto la logica delle beatitudini e del giudizio davanti a Dio – “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35) – e ripresenta alla coscienza europea un dramma che nessuno Stato membro può eludere: Lampedusa – e in genere l’Italia – è la porta dell’Europa, cioè la porta di casa. Ma, altresì, il Papa ha sollecitato le Nazioni più ricche a riconsiderare le ferite di molti popoli senza girare lo sguardo dall’altra parte, come accadde nella parabola del samaritano. Si tratta di giustizia e di solidarietà, ma anche di intelligenza: fino a quando tanti squilibri e sofferenze? 6. Il Paese.Infine, non possiamo non dare voce alla gente: come Pastori viviamo con loro e per loro nel nome di Gesù. Raccogliamo riconoscenti la loro fiducia, condividiamo le loro speranze e le ansie, specialmente in tempi che continuano a essere duri e non se ne vede ancora la fine. Non ci si può illudere che tutto sia nuovamente a portata di mano come prima: grande impegno viene profuso dai responsabili della cosa pubblica, ma i proclamati segnali di ripresa non sembrano dare, finora, frutti concreti sul piano dell’occupazione che è il primo, urgentissimo obiettivo. Ogni passo è benvenuto, ma l’ora esige una sempre più intensa e stabile concentrazione di energie, di collaborazioni, di sforzi congiunti senza distrazioni, notte e giorno. Ogni atto irresponsabile – da qualunque parte provenga – passerà al giudizio della storia. Concentrazione che porti risultati sensibili per chi vive l’ansia del lavoro. Insieme si può! E si deve! Gli osservatori dicono che l’attuale indice di disoccupazione giovanile raggiunge il 37,3%, e tutti sappiamo che, senza opportunità, i giovani sono costretti a farsi emigranti, impoverendo giocoforza il Paese di giovinezza e di competenze. Per non dire di quanti vivono nella paura di perdere il posto di lavoro a breve. Come proprio ieri a Cagliari ha detto il Santo Padre, è “una sofferenza – la mancanza di lavoro – che ti porta – scusatemi se sono un po’ forte, ma dico la verità – a sentirti senza dignità! Dove non c’è lavoro, manca la dignità” (Incontro con il mondo del lavoro a Cagliari, 22.09.2013). Da Pastori, non abbiamo ricette di ordine tecnico: ma sappiamo che la macchina del Paese ha un cuore e un motore. Ed è nostra ferma convinzione che sia la famiglia: è una certezza che non nasce dal “laboratorio” – come ricorda il Papa nella recente intervista alla Civiltà Cattolica – ma nasce dal nostro stare in “frontiera” e dal nostro dialogare “con la frontiera tutti i giorni” (cfr Intervista alla Civiltà Cattolica). Il centro che deve ispirare e muovere il Paese è la famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna, grembo della vita, cellula sorgiva di relazioni, primordiale scuola di umanità. È interessante che, anche a livello di indagine sociologica (Programma “European Values Study”), emerga che – pur in tempo di crisi – la famiglia si conferma al primo posto tra le priorità dei cittadini europei, davanti a lavoro, religione, politica, amicizia e tempo libero (cfr Uscire dalla crisi. I valori degli italiani alla prova, Vita e Pensiero, Milano 2011). Essa è un capitale umano che genera ricchezza per la società intera. Sotto questo profilo, l’auspicato “fattore familiare” rappresenterebbe non una elargizione, ma un riconoscimento e una sorta di restituzione di quanto la famiglia “produce” in termini di benessere generale. La gente guarda attonita, teme che i suoi sacrifici vengano buttati via, e ogni giorno spera ancora che appaia qualche spiraglio realistico che faccia intravvedere il nuovo giorno; ma questo deve essere visto da tutti, non annunciato da pochi. Il patrimonio umano, che è la famiglia naturale, è un bene insostituibile e incomparabile che deve essere custodito, culturalmente valorizzato e politicamente sostenuto. Con il matrimonio, infatti, nasce un nuovo soggetto, stabilmente costituito, con doveri e diritti che lo Stato riconosce e per i quali si impegna con normative specifiche. La ragione essenziale di tale coinvolgimento giuridico sta nel fatto che in ogni famiglia è in causa il bene comune sul duplice versante della continuità e della tenuta del tessuto sociale. La tenuta sociale, infatti, non dipende in primo luogo dalle leggi, ma dalla solidità della famiglia, aperta alla trasmissione della vita e prima palestra di legami. Nel “noi” della famiglia cresce l’“io” di ogni individuo, e si rafforza il “noi” sociale. Si impara a riconoscere e superare l’individualismo che ripiega su di sé e strangola la persona, e si scopre – radicandola – la cultura dell’incontro. Per questa ragione lo Stato non è necessitato a impegnarsi con ogni desiderio individuale o relazione, ma solo con quelle realtà che hanno rilevanza per il “corpo sociale” nel suo presente e nel suo futuro. “L’essenza dell’essere umano – scrive Papa Francesco – tende all’unione di un uomo e una donna come reciproca realizzazione, attenzione e cura, e come il naturale cammino per la procreazione. Ciò conferisce al matrimonio rilevanza sociale e carattere pubblico. Il matrimonio precede lo Stato, è la base della famiglia, cellula della società, anteriore ad ogni legislazione e anteriore alla stessa Chiesa. (…) Il matrimonio (costituito da un maschio e una femmina) non è la stessa cosa dell’unione di due persone dello stesso sesso. Distinguere non vuol dire discriminare (…). In un’epoca in cui si sottolinea la ricchezza del pluralismo e della diversità culturale e sociale, sarebbe una contraddizione minimizzare le differenze umane fondamentali” (Solo l’amore ci può salvare, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 127-128). Nella GMG di Rio, il Santo Padre ha anche insistito perché si ristabilisca il dialogo tra i giovani e gli anziani, che sono i due estremi della società e che rischiano di essere scartati: il culto del dio denaro, infatti, porta a escludere i “due poli della vita che sono le promesse dei popoli. Esclusione degli anziani, ovviamente. Uno potrebbe pensare che ci sia una specie di eutanasia nascosta, cioè non ci si prende cura degli anziani; ma c’è anche una eutanasia culturale, perché non li si lascia parlare, non li si lascia agire. E l’esclusione dei giovani. La percentuale che abbiamo di giovani senza lavoro, senza impiego, è molto alta (…). Questa civiltà ci ha portato a escludere i due vertici che sono il nostro futuro” (Incontro con i giovani argentini, cit.). Siamo di fronte a una specie di neo-maltusianismo economicistico, a una cultura dello scarto che si fa avanti ormai a viso aperto in alcune regioni del mondo. La Chiesa porta il suo contributo di principi e di testimonianza perché il pubblico dibattito sia arricchito di sensibilità e ragioni. È necessario, però, sgombrare il campo da pregiudizi e dalle pressioni del momento, per poter dialogare con serenità. Nessuno, ad esempio, discute il crimine e l’odiosità della violenza contro la persona, qualunque ne sia il motivo: tale decisa e codificata condanna – coniugata con una costante azione educativa – dovrebbe essere sufficiente in una società civile. In ogni caso, per lo stesso senso di civiltà, nessuno dovrebbe discriminare, né tanto meno incriminare in alcun modo, chi sostenga ad esempio che la famiglia è solo quella tra un uomo e una donna fondata sul matrimonio, o che la dimensione sessuata è un fatto di natura e non di cultura. Cari Confratelli, sono alcune suggestioni che il Magistero del Santo Padre, la GMG e la frontiera della storia ci rivolgono. Vi ringrazio per l’attenzione benevola e per il discernimento che faremo insieme. Ci benedica San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale, e la Santa Vergine venerata con i titoli più diversi e belli dal nostro popolo.