Chiesa

Parma. Solmi: i miei preti morti per amore della gente

Francesco Ognibene giovedì 9 aprile 2020

Il vescovo di Parma, Enrico Solmi

Pareva che la tempesta si fosse placata. Invece dopo alcuni giorni di tregua ieri mattina è arrivata la notizia della morte di don Giuseppe Canetti, 89 anni, già vicario parrocchiale di Colorno, ormai ritirato presso la Casa del Clero. Con lui i preti che la diocesi di Parma ha perduto dall’inizio dell’epidemia salgono a sette, di cui cinque parroci. Il virus si era già portato via don Giorgio Bocchi e don Pietro Montali, entrambi 89enni, il 94enne don Franco Minardi, che fu secondo direttore della Caritas diocesana, don Fermo Fanfoni, 82 anni, e don Giuseppe Fadani, un anno in più. Solo preti anziani? Purtroppo no, perché del triste elenco fa parte anche don Andrea Avanzini, che di anni ne aveva appena 55. Per il vescovo tanti lutti sono un peso quasi intollerabile. Sotto questa croce monsignor Enrico Solmi affronta – oggi – un Giovedì Santo di lacrime e speranza. Lo fa con un ritiro per il clero tutto online, nel quale vuole aprire il suo cuore di padre. E lasciarlo parlare.

Sette preti diocesani morti, le parrocchie come “sospese”, le Messe senza popolo. Come affronta questo tempo così duro?

Come una prova molto dolorosa sotto il profilo personale, avverto un grande peso nel cuore. Ma ho anche sperimentato la consolazione di vedere la solidarietà viva del presbiterio, che mi è apparso davvero come una famiglia. Due preti malati ormai gravi, raggiunti in ospedale, mi hanno chiesto anzitutto “come stanno gli altri”, mentre già presagivano la fine imminente. Dopo la morte c’è poi il dolore di non poterli accompagnare se non sulla soglia del cimitero per benedire la salma, da solo. Ma per ogni prete deceduto ho avvertito l’affetto della gente per la loro Chiesa così duramente provata

Che voci raccoglie tra i suoi preti?

Li ho chiamati tutti, i più anziani varie volte, e sempre mi sento dire di non stare in pensiero, perché “la mia gente è fin troppo buona, mi riempie di attenzioni”. Sono certo che chi era ancora in servizio pastorale si sia infettato per non sottrarsi al bisogno di consolare le persone che avevano appena perso un loro caro. Per i nostri preti fare il bene è irrinunciabile, e nulla li può distogliere dal farlo come sanno. Non hanno dubitato di dover aiutare gli altri.

Cosa dirà al clero in questo Giovedì Santo?

Che il Signore ci attende dentro una casa: per ascoltarlo noi dobbiamo entrare, non possiamo starcene sulla soglia. Dentro c’è Lui, ma c’è anche il popolo di Dio: tutti nella stessa barca, come ci ha detto il Papa.

Che domande si sta ponendo?

Mi chiedo se quanto abbiamo fatto sinora regge la prova con la realtà, che è molto diversa da come pensavamo e che forse chiede risposte altrettanto diverse. Ora alla Chiesa sta arrivando una domanda di rinnovamento, che va accolta. Tenendo conto che i miei preti hanno un’età media di 70 anni... Ma li vedo prodigarsi per non perdere il contatto con le loro comunità, anche prendendo dimestichezza con le tecnologie come non avrebbero pensato di dover fare. Stanno davvero facendo di tutto, non si sono mai sottratti.

Anche lei ha “inventato” dei gesti impensabili...

Sì, lunedì ho sostato davanti ai sette luoghi che nel nostro territorio accolgono malati di Covid–19 per l’assoluzione generale alle condizioni previste per questa emergenza dalla Santa Sede. E ho trovato nel clero un’adesione senza esitazioni.

Ai preti questa situazione estrema cosa sta insegnando?

Che non sono soli, ma sono davvero parte di una comunità. Il tempo che attraversiamo gli pone domande sul loro dono della vita per gli altri, sull’essere persone che celebrano e che pregano per tutti. Stiamo vedendo all’opera i diversi carismi nella Chiesa, il sacerdozio ministeriale e quello battesimale di tutti i credenti. Essere comunità significa saper condividere questi doni. È la relazione con un “noi” che ci fa crescere.

Cosa chiede ai sacerdoti ora?

La grande umiltà di metterci tutti, a cominciare da me, seduti davanti al Signore che ci parla e ci sta riportando all’essenziale della nostra fede. Dobbiamo patire insieme alla gente, consolarla, starle vicino più che possiamo. Anche perché tra le persone sta nascendo una nuova domanda religiosa. E dalla Chiesa si attendono anzitutto che sappia “dire Dio”.