Chiesa

Rieti. Il vescovo Pompili: andiamo verso gli altri

Alessia Guerrieri, inviata a Rieti sabato 2 settembre 2017

Monsignor Pompili tra i fedeli della sua diocesi

Dal suo studio si vede tutto il borgo fino al di là del fiume Velino. E, aguzzando la vista, s’arriva a scorgere perfino parte del Santuario di Sant’Antonio al Monte, oggi oasi francescana di preghiera e meditazione. Sulle pareti un quadro della Madonna con Bambino e uno con la sua nomina, a firma di papa Francesco, alla Chiesa reatina. «Un minuto ancora e arrivo ». Monsignor Domenico Pompili si affaccia dalla porta che collega alla stanza attigua in cui sta ricevendo un gruppo di persone del nord Italia in visita per dare solidarietà. Don Domenico, vescovo di Rieti dal 2015, ha visto modificata la quotidianità, ancor più da quando dodici mesi fa è diventato pastore di una diocesi terremotata. Non è facile, perciò, provare a portare la mente indietro a due anni fa, al momento della sua nomina a vescovo. «In quei giorni ho vissuto dentro un doppio registro. Da un lato, la gioia per la fiducia che il Papa mi dava a riprendere a pieno ritmo l’attività pastorale. Nello stesso tempo, c’era questa sorta di freno emotivo legato alla fase terminale della malattia di mio fratello», l’ammissione, mentre si sistema su una sedia troppo bassa per essere comoda. Pur essendo di origini laziali, infatti, Rieti era per lui una città quasi sconosciuta e questo ha avuto i suoi vantaggi, perché «ha consentito un approccio senza pregiudiziali reciproche».

Anche se quando è entrato a far parte della diocesi reatina il 5 settembre di due anni fa – monsignor Pompili sembra ancora stupito di ciò – ha avuto «da subito la percezione di essere atteso e d’incontrare da parte non solo dei credenti, ma anche di quelli che guardano più a distanza la Chiesa, una sorta di aspettativa». Il che lo ha caricato di «responsabilità» e però anche «motivato, perché sentirsi l’oggetto delle speranze di un territorio è una scarica di adrenalina importante per affrontare una novità». Da qui la volontà di aprirsi da subito a tutto il territorio, non solo alla cittadina di Rieti; «una terra molto articolata, una zona di confine tra quattro regioni che vive anche la fatica di confluire su una dimensione comunitaria ». Proprio la dimensione collegiale è stata la sua musa nella scelta del motto episcopale Ut fructum afferatis, affinché portiate frutto. Il vescovo «non è un uomo che può star da solo, sta dentro una visione più ampia che è quella della Chiesa», la spiegazione di monsignor Pompili, perciò questo servizio può essere esercitato «soltanto al plurale», con i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, i laici. Dunque la Chiesa è sì una, «ma assolutamente articolata al suo interno ed opera in funzione della valorizzazione di ciascuno». Così, sin dal principio, ai suoi sacerdoti ha chiesto di conservare un tratto popolare, perché se per un verso «loro oggi vivono all'interno di una “centrifuga” data dai cambiamenti socio-culturali», in un momento in cui c’è bisogno di punti di riferimento, il prete «se mostra disponibilità di mettersi al servizio, riesce a catalizzare l’attenzione anche delle persone più distanti. Perciò bisogna non farsi sopraffare dal senso di spaesamento e saper cogliere tra le righe questa attesa».

Ecco perché, ripete mentre silenzia il telefono su cui sta arrivando l’ennesima telefonata, «ho chiesto ai sacerdoti di provare a cambiare verso, perché se continuiamo ad impostare il nostro vivere secondo la logica del 'per- ché non vengono' in chiesa, rischiamo di ritrovarci sconsolati a contabilizzare esiti piuttosto disastrosi. Invece se ci si muove, qualcosa accade e certe volte anche al di sopra delle nostre aspettative». Don Domenico in questi due anni da pastore di Rieti ha dovuto muoversi lui per primo, anche prima del sisma, «girando in lungo e in largo per un territorio ampio e soggetto a un progressivo spopolamento», descrive il suo ruolo di vescovo, che però resta soprattutto «muoversi in cerca di volti, valorizzando non solo il momento liturgico ma anche gli incontri occasionali, le situazioni sociali più importanti, perché la gente percepisca che la Chiesa non è estranea a nessuna questione vitale». Anche se, prosegue il suo ragionamento mentre fa muovere avanti e indietro con la mano gli occhiali da vista, «qualche volta bisogna saper stare a guardare, lasciare mano libera ai presbiteri, scommettere sui laici perché siano protagonisti, con sortite differenti rispetto al proprio intuito». Perciò la sua “ricetta” nell’agire quotidiano è «dare la carica, rianimare la comunità, ma ancor più far crescere le persone in libertà, come fa del resto ogni educatore, ogni genitore».

Poi il volto di don Domenico, finora serio, s’illumina: «Mi sento come uno dei papà di oggi, consapevole che il ruolo non aiuta più, anzi può diventare una zavorra». Una famiglia, comunque, quella che immagina, in cui c’è un posto particolare riservato a laici e giovani. I primi infatti «garantiscono alla fede cristiana l’aderenza al vissuto, perché i laici ci consentono un contatto reale con la vita delle persone» e sono «più credibili proprio per il loro radicamento nella società». Così monsignor Pompili prova a valorizzarli «ancor prima che nelle forme organizzate attraverso la loro vita quotidiana», perché i laici, «come il sale, danno gusto e sapore alla vita comunitaria». Oltre al percorso parrocchiale per loro all’inizio dell’anno è dedicato un incontro per «pensare insieme idee da realizzare», in cui il vescovo invita sempre «alla riscoperta della vita cristiana nella sua dimensione temporale, che è appunto l’anno liturgico », a partire dalla domenica. Questo giorno, per lui, è difatti «la cartina di tornasole della capacità della Chiesa di continuare ad essere un punto d’incontro ». I credenti tuttavia sono chiamati in causa anche a livello sociale e politico, davanti «all’apatia della politica che sembra incapace di sostenere il bene comune». E, dunque, compito della Chiesa è anche quello «di aiutare a che la società civile si risvegli e prenda più consapevolezza del fatto che oggi la differenza non la fanno solo istituzioni efficienti, ma anche cittadini consapevoli dei propri diritti e doveri».

Non meno fondamentali per il vescovo i giovani a cui ha voluto dedicare un meeting di tre giorni ogni anno a gennaio «per dare loro la possibilità di ragionare», due anni fa a Greccio con la visita a sorpresa di Papa Francesco e quest’anno ad Amatrice in solidarietà con l’epicentro del terremoto del 24 agosto. Più che parlare con i giovani e sui giovani, l’obiettivo di questo appuntamento è quindi «lasciarli parlare, lasciarli esprimere perché penso che i giovani non siano molto lontani dal Vangelo come idealità, invece in concreto sono fisicamente lontanissimi da noi». Hanno solo bisogno di essere ascoltati. Rieti è luogo di confine, luogo di passaggio a pochi chilometri dalla Capitale.

Ma le sue grandi possibilità potranno emergere «solo se sarà superato il suo isolamento atavico che non corrisponde alla sua geografica - è la premessa di don Domenico, quando pensa al futuro del territorio - riscoprendo anche la sua vocazione storica e naturale». E dal punto di vista religioso, ritrovando «lo spirito di san Francesco, che qui, nellaValle Santa, ha vissuto la sua esperienza originaria della regola a Fonte Colombo, del primo presepe a Greccio e del perdono a Poggio Bustone». Quando il ragionamento si fa profondo e viaggia lontano, verso il domani della provincia, i problemi quotidiani fanno capolino.

E il problema della diocesi oggi si chiama ricostruzione materiale e spirituale post 24 agosto 2016. Il sisma, «un’apocalisse nel senso stretto del termine», è stato però per monsignor Pompili «anche una rivelazione più puntuale del territorio, perché la tragedia che ci ha travolto ha reso i rapporti più immediati e autentici». Dodici mesi che gli hanno permesso di conoscere la natura delle popolazioni che vivono nell’Appennino, «tenaci e nello stesso tempo indifese». Il terremoto «ha stravolto l’agenda quotidiana - è l’inevitabile conseguenza ha avuto la priorità, mi ha però riportato ad una maggiore essenzialità. Dinanzi a condizioni precarie passa la voglia di dare spazio al superfluo e si è richiamati all’essenziale: una Chiesa che nel momento della necessità semplicemente garantisce la sua presenza ». E don Domenico non nasconde lo stupore quando racconta «di aver scoperto che, per alcune persone, il terremoto è stato il modo per ritornare a pregare, anche se qualche volta è più difficile».