Chiesa

Pastorale giovanile. Falabretti: «Chi lavora sul campo contribuisca alla riflessione»

Daniela Pozzoli mercoledì 14 ottobre 2020

Michele Falabretti

Abbiamo chiesto a don Michele Falabretti, direttore del Servizio nazionale di pastorale giovanile, di aiutarci a inquadrare le 14 pagine di questo contributo che ha voluto agile e ricco di spunti.

Nella premessa lei specifica che «non si tratta di un documento», ma di un "contributo": cosa intende?
A fine estate è nata una riflessione tra noi della pastorale giovanile: questi mesi sono stati difficili e interessanti allo stesso tempo, hanno portato alla luce cambiamenti già in atto. Mentre si discuteva attorno alle bozze, molti usavano la parola "documento". Penso sia sbagliato, non è bene eccedere con i documenti perché c’è ancora bisogno di tempo per pensare e capire. Una riflessione pastorale deve avere l’umiltà di porsi in mezzo a mille domande. Poi, a un certo punto, è giusto condividere un contributo alla riflessione che va tenuta aperta, non chiusa con un documento ufficiale.

A chi è destinato? E potrà essere arricchito da chi lavora sul campo?
Va agli incaricati diocesani e a tutti i livelli di coordinamento delle realtà ecclesiali. Si percepisce un certo smarrimento e c’è bisogno di qualche punto fermo. Non solo è possibile, ma auspicabile, che chi lavora sul campo prolunghi questa riflessione. La smonti e la contesti, se lo ritiene. Ma con l’obiettivo di produrre pensiero per affrontare un tempo difficile.

Il testo si intitola «Attraversare il deserto»: è chiara la direzione?
Tanto quanto poteva essere chiara al popolo di Israele: la bussola indica sempre la direzione giusta, difficile è riuscire a mantenerla. Credo sia necessario accettare la fatica di questo tempo, lamentarsi troppo per ciò che non c’è più non serve a nulla. A me pare ci siano molte ragioni per tornare a coltivare l’annuncio del Vangelo e del suo umanesimo considerandolo un’impresa comune. Questo vuol dire ascolto e condivisione (sinodalità); rispetto e cura reciproca (fraternità). Forse così riusciremo ad avere un cuore più sereno, a trovare umiltà e forza per non lasciarci travolgere dagli eventi.

Nell’introduzione fa una considerazione forte, cioè che c’è stata una «perdita secca delle nuove generazioni dalla vita celebrativa»: come riagganciarle?
Non mi piace l’idea di riagganciarle. Io credo che i giovani siano Vangelo per la Chiesa e non solo il contrario. È questa la conversione pastorale: non pensare di essere sempre dalla parte giusta, perché questo non aiuta. Attraversare il deserto è anche riconoscere con grande umiltà gli errori commessi. A volte pensiamo che i giovani siano stupidi, o che non vedano o non capiscano. Ci dimentichiamo che è successo anche a noi quando siamo stati giovani. Credo che il tema non sia quello di una riconquista, ma di un profondo rinnovamento che ci permetta di mostrare con chiarezza la verità del Vangelo, anche attraverso gesti e comportamenti.

Quattro temi da cui far partire la ricostruzione?
C’è anzitutto bisogno di ascoltare e capire i giovani. Le loro storie guidano le scelte pastorali, in qualche modo ci indicano le direzioni. Allo stesso modo, un secondo tema è l’alleanza con il territorio a cui siamo ancora poco abituati. La dimostrazione è stata la fatica di accettare e condividere le regole che il confinamento richiedeva. Inoltre fare attività educativa significa avere molte più competenze, dobbiamo alzarle, ma anche condividerle, facendo alleanza con le realtà del territorio. Un terzo tema è quello delle età: l’età evolutiva richiede si riconoscano tempi e momenti diversi per i ragazzi, soprattutto quelli che si incrociano con la conclusione dell’iniziazione cristiana e ancora non sono riconosciuti nella loro condizione di preadolescenti e adolescenti. C’è bisogno di cammini più dedicati e specifici. E infine la realtà ecclesiale di un territorio va coordinata meglio: la Chiesa non è un centro commerciale dove ogni esercizio guarda al proprio profitto. Le parrocchie assicurano una presenza importante e capillare che non va assolutamente persa, ma oggi i giovani sono sempre in movimento: c’è bisogno riconoscere il lavoro anche di esperienze più informali.