Chiesa

A 40 anni dalla morte. Quando Montini scrisse: «Temo che non diventerò mai santo»

Eliana Versace sabato 4 agosto 2018

«Temo che non diventerò mai santo», annotò Giovanni Battista Montini, esaminandosi severamente, in un appunto autografo e senza data, ma scritto probabilmente in occasione della solennità di tutti i Santi del 1948, quando il futuro Pontefice era impegnato nel servizio alla Santa Sede come sostituto della Segreteria di Stato. Invece, a quarant’anni dalla morte, avvenuta il 6 agosto 1978 nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il prossimo 14 ottobre papa Francesco proclamerà santo il suo venerato predecessore Paolo VI.

Se con l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, l’attuale vescovo di Roma ha voluto ricordare la chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, solennemente proclamata con la Lumen Gentium dal Concilio Vaticano II, ben poco conosciute sono le intense riflessioni sulla vocazione alla santità e sulla necessità per tutti i cristiani di perseguirla, maturate da Giovanni Battista Montini durante tutto il corso della sua vita.

Papa Montini nei quindici anni del suo pontificato aveva elevato all’onore degli altari un centinaio tra santi e beati, riformando inoltre i processi di canonizzazione con la Lettera apostolica Sanctitas clarior del 19 marzo 1969, ma sin da giovane si era interrogato sul significato della santità e sul necessario impegno di ogni cristiano per rispondere a questa universale vocazione. Tuttavia Montini riscontrava in se stesso, e si imputava, diverse carenze che lo scoraggiavano nel proposito della sua personale santificazione, in quanto «mi manca – annotava nell’appunto citato in apertura e conservato presso l’Istituto Paolo VI di Concesio – quella speciale grazia di Dio che fa prodigiose le vite dei santi».

«Mi manca – aggiungeva, forse influenzato dai principali modelli agiografici allora ancora predominanti – quell’energia eroica che fa del santo un essere singolare, fortissimo, tenace e vincitore». Ma soprattutto, concludeva, «mi manca anche la voglia di far uscire la mia vita dalla beata mediocrità, dal dilettantismo morale, dalla sufficienza minimizzata». Su quest’ultima e più comune “deficienza” il futuro Paolo VI si soffermò con maggior scrupolo mosso dalla necessità di combattere e vincere una sua presunta «pigrizia morale» che più di tutto ostacolava in lui (come in tanti cristiani) il perseguimento del bene a cui si sentiva evangelicamente indirizzato.

Proprio la solennità di tutti i Santi invece mostra al credente come la santità possa trovare multiformi ed esemplari adattamenti per ogni condizione di vita «così che bisognerebbe saper scoprire nella propria vita ciò che serve alla santità, alla perfezione morale». Confortato dalle parole del prediletto san Paolo per cui tutto concorre al bene per coloro che amano Dio, per Montini il cristiano doveva riscoprire l’«ottimismo» che permette di trarre del bene da ogni vicenda umana e da ogni situazione esistenziale, e poiché questo ottimismo è confortato dalla certezza che «Dio dà sempre a tutti grazia sufficiente», Montini terminava i suoi appunti con un sorprendente capovolgimento dell’esclamazione iniziale per cui «Temo che mi farò Santo!!!» - scriveva, incoraggiandosi nel perseguire la strada dell’edificazione spirituale e della perfezione morale, senza eludere il timore di sentirsi comunque inadeguato.

Il futuro papa Paolo VI tornò a riflettere sul concetto di santità in un altro scritto, anch’esso senza data e sempre custodito dall’Istituto Paolo VI, intitolato proprio Santità, nel quale riferendosi alle Scritture distingueva la «santità-sforzo» dalla «santità-risultato», in quanto «la prima è dovere. Essa non ha grandezza, abitualmente. Ha coerenza, perseveranza, persuasione. Non ha pretese oltre l’atto, oltre l’attimo». E allora «non va commisurata su la grandezza eroica, drammatica dei personaggi celebri, sebbene a volte raggiunga grandezza straordinaria anche di questo genere. Ma va cercata la sua essenza nell’influsso creato nell’anima dall’elemento soprannaturale. La più prossima espressione riconoscibile di tale influsso è quindi “uno spirito”, un’interiorità, un’attività psicologica particolare, una pietà, un’adesione alla religione che costituisce il centro motore di tutta l’altra attività libera dell’uomo». Montini giungeva dunque a conclusione che la «santità in esercizio», quella richiesta a tutti i cristiani, non è altro che «un continuo duplice atto di umiltà e di fiducia per disporre l’anima a compiere, come ricevuti in dono, gli altri atti di fede, di speranza, di amore e quelli dell’azione buona e forte esteriore».

Così intesa e vissuta, la santità avrebbe rappresentato la realizzazione «più vera, più autentica, più piena della vita, quale il Signore l’ha creata», come dirà da arcivescovo di Milano, nel 1958, parlando alle Suore di Maria Bambina, congregazione dalla quale provenivano le religiose che gli prestarono assistenza personale durante l’episcopato e il pontificato, fino alla sua morte. Ad esse il futuro Paolo VI spiegò che «la santità non consiste né nei voti, né nella regola», ma si fonda essenzialmente e concretamente nella carità, termine prediletto da Montini che ne declinava il significato nei più diversi contesti. «Una carità – osservava l’allora l’arcivescovo di Milano – che ci porta fuori, che ci porta lontano, che è ansia del bene in se stesso, che in una parola, è amore di Dio: questa è santità verace ed autentica». Non solo ai religiosi e ai consacrati, pertanto, era riservata la privilegiata prerogativa di perseguire la propria santificazione personale; e nemmeno ai pontefici ai quali, in maniera esclusiva, è riservato il titolo di «Sua Santità» ragion per cui «ciascuno a suo modo» – affermava Montini sempre nel 1958, nel discorso tenuto in Duomo a Milano per l’elezione di Giovanni XXIII – pensa alla santità «congiunta con la grande e misteriosa missione del Pontificato Romano, cattolici e non cattolici».

Invece anche i laici, «esperti di vita» dovevano perseguire la perfezione cristiana proprio operando nel mondo e santificandolo con la loro testimonianza d’amore. Lo spiegò bene Paolo VI, esattamente cinquant’anni fa, quando nell’aprile 1968, ricevette i membri dell’Istituto secolare Cristo Re, fondato a Milano da Giuseppe Lazzati [recentemente dichiarato venerabile e che fu anche, per alcuni anni, direttore del quotidiano cattolico di Milano L’Italia, che fondendosi nel 1968 con il quotidiano cattolico di Bologna, L’Avvenire d’Italia darà vita il 4 dicembre 1968 ad Avvenire]. In quella circostanza, lasciando il testo del discorso già predisposto e improvvisando come spesso accadeva, papa Montini ricordò una conversazione con Lazzati «che per noi restò memorabile, nella quale egli ci spiegava – rammentava Paolo VI, parlando a braccio – che la vita nel mondo, (…) non è soltanto l’ostacolo da vincere, non è soltanto l’ambiente in cui navigare e farsi il proprio sentiero per salvare l’anima propria e probabilmente l’altrui, ma è il campo fecondo, è la stessa sorgente qualificante della vostra spiritualità e, diciamo pure, della vostra santità: la professione diventa un elemento positivo invece che negativo o neutro; diventa lo stimolo continuo a mettere in esercizio quella famosa consecratio mundi che dovrebbe a Dio piacendo, cambiare un po’ la faccia delle cose profane e temporali, e renderle, nel rispetto della loro natura e delle leggi con cui si volgono e si affermano, degne del Regno dì Dio».