Chiesa

Firenze 1966. «Noi, angeli del fango con la talare»

Giacomo Gambassi giovedì 3 novembre 2016

Piazza Santa Croce, con la sua Basilica, invasa dalle acque

Mentre la terra tremava in Umbria e nelle Marche la scorsa settimana, il cardinale Gualtiero Bassetti era sotto un architrave nel palazzo vescovile di Perugia. «E in quel momento mi è tornato in mente l’alluvione di Firenze. L’acqua profana e distrugge. Lo stesso fa il terremoto. Oggi come allora c’è paura. Ecco perché bisogna stare vicino alla nostra gente». L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve era in quel novembre del 1966 un giovane prete di 24 anni della Chiesa fiorentina. Il cardinale Ermenegildo Florit lo aveva ordinato sacerdote pochi mesi prima, il 29 giugno, e inviato come cappellano a San Salvi, una parrocchia “rossa” di 10mila anime alla periferia della città. «Ho visto l’acqua dell’Arno che aveva rotto gli argini arrivare a qualche metro d’altezza – confida –, ma anche una meravigliosa gara di solidarietà. In quel quartiere dove il Pci aveva percentuali da primato, non esistevano più né don Camillo, né Peppone. Tutti eravamo fianco a fianco a svuotare gli scantinati, a portare il fango fuori delle case, a recuperare quel poco che era rimasto alla povera gente». L’alluvione fa parte del bagaglio di ricordi di Bassetti. Come anche di altri “angeli del fango” che adesso sono cardinali o vescovi. E sette di loro saranno domani venerdì 4 novembre a Firenze nella Basilica di Santa Croce per concelebrare alle 10 la Messa a cinquanta anni dal giorno “simbolo” dell’inondazione: il 4 novembre 1966.



Bassetti: un prete incosciente aiutato dai miei ragazzi

L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve preferisce definirsi – con quell’ironia tutta toscana – un “facchino del fango”. «Ho ancora davanti agli occhi la bomba d’acqua che aveva scardinato le porte della chiesa e l’aveva invasa come fosse uno tsunami. Il parroco mi aveva appena detto: “Gualtiero, portiamo via il Santissimo perché qui succede qualcosa di brutto”. Mentre avevamo in mano la pisside, abbiamo sentito il boato. Se sono vivo è perché dietro l’altare cominciava una scaletta che portava in casa». Il Comune di Firenze ha svelato un “atto eroico” di Bassetti. «Più che altro sono stato un incosciente – sorride –. Mentre l’acqua saliva, ho sentito un odore acre di carburo davanti alla chiesa. Veniva da un deposito che rischiava di esplodere. Con alcuni ragazzi della parrocchia abbiamo sfondato la saracinesca e portato via i fusti». In un angolo abitava l’anziana “Mamma Rosina”. «Tutti la conoscevano. Passava le giornate a dire il Rosario – racconta Bassetti –. Stava in un seminterrato. Quando siamo entrati, l’acqua aveva già raggiunto il piano del tavolo e lei si era rifugiata sopra. Non ne voleva sapere di abbandonare la stanza. L’abbiamo salvata grazie ai miei giovani».



Betori: un badile il mio primo pastorale

«Il pastorale che per la prima volta ho usato a Firenze cinquanta anni fa era un badile: non è servito per appoggiarmi, ma per sostenere gli altri». Giuseppe Betori aveva 19 anni quando in quel novembre 1966 giunse nel capoluogo toscano sommerso dalla furia dell’Arno. Quarantadue anni dopo sarebbe arrivato di nuovo in città, stavolta come arcivescovo chiamato a guidare la Chiesa fiorentina. «Nella mia memoria è rimasta impressa la bellezza ferita, ma anche la forza, la dignità, il coraggio e la volontà dei fiorentini di rialzarsi», racconta il cardinale. E torna a mezzo secolo fa. «Avevo da poco iniziato a Roma i miei studi di teologia alla Pontificia Università Gregoriana come alunno del Seminario Lombardo. Dopo le notizie terribili da Firenze, le vittime, la città devastata, lasciammo i libri e con un gruppo di dodici seminaristi e giovani preti partimmo. Il nostro rettore, monsignor Ferdinando Maggioni, vide in quell’esperienza un’attività formativa per noi». E così è stato. «Un’occasione concreta e non astratta di teologia sul campo, al popolo – afferma Betori –. Papa Francesco dice che la realtà deve venire prima delle idee e noi lo sperimentammo subito. Stare a fianco della gente smarrita è una lezione importante. E ancora oggi da arcivescovo mi piace considerare questo come il primo servizio fatto da un pastore per la sua gente, anche se quella volta non avevo in mano un pastorale, ma un bastone». Al gruppo del futuro cardinale venne affidato il compito di liberare le cantine e i primi piani delle case di periferia a Badia a Ripoli. «Non spalavamo il “fango nobile” dei musei e delle biblioteche, ma quello “proletario” della gente semplice. Non salvavamo le opere d’arte o i libri, ma recuperavamo qualcosa di altrettanto prezioso, i ricordi delle persone, oggetti cari, lettere come quelle contenute in una scatola di latta da un’anziana. Poi un pulmino ci riportava a dormire nelle brandine allestite nel teatro di una parrocchia dove alla sera tolte le tute da lavoro partecipavamo alla Messa. Difficile dimenticare la sofferenza, lo sgomento, il dolore negli occhi e nel cuore delle persone». Quindi il cardinale guarda all’oggi. «Gli insegnamenti di quanto avvenne cinquanta anni fa, come di altri momenti drammatici del nostro Paese, ultimo il terremoto nel Centro Italia, dicono che la solidarietà, la generosità, il bene superano sempre tutto, danno sostegno e concretezza alla speranza di chi è nel dolore».



Scola: un'esperienza di educazione al gratuito

Arrivò nel pantano di Firenze anche Angelo Scola. Non era ancora entrato in Seminario l’attuale cardinale arcivescovo di Milano. Era un professore al liceo, di neppure 25 anni, appena laureato e presidente della Fuci ambrosiana. «Come universitari cattolici milanesi decidemmo di partire per dare una mano – spiega –. Per quattro mesi assicurammo la nostra presenza. Si iniziò in Santo Spirito. Poi fummo trasferiti allo Spedale degli Innocenti, in piazza Santissima Annunziata, dove spalammo il fango riuscendo anche a recuperare preziosi fogli di alcuni manoscritti della biblioteca. Venivamo da una certa esperienza di divisione tra giovani studenti cattolici e il fatto di lavorare insieme favorì la nascita di un’amicizia tra noi, con il superamento delle tensioni presenti nell’associazione». Il cardinale iscrive le settimane fiorentine fra quelle che hanno segnato la sua storia personale. «Nel ’66 stavo maturando la mia vocazione, ma quegli anni, prima in Gioventù Studentesca e poi nel mondo universitario, sono stati molto preziosi. Anche perché lo studio non sta solo nelle “sudate carte”, ma anche nello scambiare, in termini informali, nell’interloquire. Ci interrogavamo con passione sul significato, persino culturale, in senso nobile, di un’azione caritativa di fronte al disastro dell’alluvione, impegnati a scoprire come la carità consenta quello sguardo che fu lo sguardo di Gesù sulla realtà del mondo. Mi ricordo come la sera, con il buio che ci costringeva a interrompere il lavoro, stessimo insieme discutendo del più e del meno. E qui sgorgava una conoscenza nuova, una nuova capacità di fare cultura». Poi Scola aggiunge: «Ho parlato spesso ai giovani, soprattutto quando sono giunto a Venezia come patriarca, di quanto accaduto nel capoluogo toscano per far capire loro un’idea che mi sta molto a cuore: quella di educazione al gratuito».



Coletti: quel cofanetto di lettere restituito a un'anziana

Era prete dell’arcidiocesi di Milano da appena un anno Diego Coletti – oggi emerito di Como – e di anni ne aveva 25. Studiava a Roma. «Quando si diffuse la notizia dell’alluvione, con alcuni compagni, fra cui l’attuale cardinale Giuseppe Betori, ci fu uno slancio immediato del cuore che ci spinse a chiedere di poter andare come volontari. Telefonai, se devo esmozione, sere sincero con poche speranze, ai miei superiori a Milano e con sorpresa ottenni subito il permesso di realizzare questo desiderio». Venne inviato in periferia, nella zona di Badia a Ripoli. «Un abitato povero – sottolinea Coletti –. E porto con me, ancora con com-l’Arno il ritrovamento sotto il fango di un cofanetto pieno di lettere manoscritte che l’anziana abitante di quella casa accolse dalle mie mani come fosse un prezioso tesoro. Si trattava della corrispondenza tra lei e quello che era stato il suo fidanzato. Con lacrime di gioia fermò il nostro lavoro e ci chiese di dedicare tempo alla ripulitura, foglio per foglio, di quello che per lei era una memoria preziosa». In quei giorni venivano condivisi «pasti frugali e pagliericci su cui dormire», ripercorre Coletti. «Era come se la vita e i rapporti fossero radicalmente semplificati e ricondotti a una limpidità primordiale. E con certezza dico che quanto ho ricevuto in umanità, cordialità e buon esempio è molto di più di quanto posso aver fatto».



Ambrosio: con gli scout un'incredibile catena di solidarietà

Dalla Capitale sbarcò lungo anche Gianni Ambrosio, pastore di Piacenza-Bobbio. Frequentava il Seminario e avrebbe compiuto 23 anni alla fine del dicembre 1966. «Studiavo teologia alla Gregoriana e seguivo il gruppo scout di una parrocchia romana. Con alcuni scout siamo partiti su un camion, di notte. Ricordo il freddo e le difficoltà del viaggio per le strade interrotte o bloccate, la periferia di Firenze dove l’acqua era giunta a un’altezza impensabile. Poi la fame e la scarsa organizzazione. Ma soprattutto ho due sentimenti che mi sono rimasti impressi: un senso di desolazione nel vedere dal vivo la tragedia; e un richiamo di speranza di vita di fronte all’incredibile catena di solidarietà. Alla fine prevale quest’ultima immagine».



Marrucci: fra i libri nella melma con i piedi a mollo

Era un seminarista di 21 anni Luigi Marrucci, oggi vescovo di Civitavecchia-Tarquinia. Si imbattè nell’alluvione mentre era a casa, nel Pisano, a Montescudaio. «Quando rientrai a Siena in Seminario – racconta – chiesi al rettore di poter dare il nostro contributo. Il rettore ci autorizzò ad andare ogni sabato e domenica». A quel drappello di futuri preti venne assegnata come “area calda” la Biblioteca Nazionale che ancora continua ad affacciarsi sull’Arno. «Tiravamo via i libri dalla melma. Avevamo sempre i piedi a mollo. Passavamo le giornate lavorando, pregando nelle pause, mangiando un unico panino che per l’umidità ci restava sullo stomaco», scherza. E fra gli scaffali incrociò una signora di Modena. «Non ho mai saputo perché fosse venuta. Mi chiese che cosa facessi nella vita. E le risposi: “Sono un seminarista, spero di diventare prete fra quattro anni”. Mi face gli auguri. All’inizio del 1970 lei telefonò in Seminario chiedendo se c’era un certo Marrucci. Si era ricordata che sarei stato ordinato sacerdote. E mi mandò tutte le opere di sant’Agostino. Ecco, l’Arno “distruttore” mi ha fatto incontrare una donna che, in modo anonimo e silenzioso, mi ha accompagnato con la preghiera fino al presbiterato. E le sarò grato per tutta la vita».



Castellani: animati dall'idea di salvare la cultura

È stato un “angelo del fango” a distanza Italo Castellani, arcivescovo di Lucca. A Firenze non c’era in quei mesi neri. Ma i volumi sfregiati della Nazionale sono passati anche dalle sue mani. Mani di seminarista a Cortona, la sua città d’origine nell’Aretino. «Arrivavano in Seminario camion carichi di libri. Nei corridoi erano stati sistemati lunghi tavoli. E il compito nostro e di tanti ragazzi delle parrocchie era quello di inserire fra una pagina e l’altra, ciascuna fragilissima, la carta assorbente». Castellani aveva 23 anni. «Sentivamo l’ansia di salvare il mondo. E ai giovani di oggi dico: abbiate la stessa tensione e lo stesso entusiasmo. Alzatevi dal divano, ha detto papa Francesco alla Gmg di Cracovia. La Chiesa e l’intera società hanno bisogno di ragazzi che sappiano spendersi per l’altro e per il bene comune ». Oggi come allora.


Il 4 novembre la Messa con i pastori "angeli del fango"

Sarà la Basilica di Santa Croce a Firenze, una delle chiese simbolo dei danni al patrimonio artistico provocati dall’alluvione del 1966, ad ospitare la Messa per ricordare i 50 anni del disastro. L’Eucaristia che si terrà domani venerdì 4 novembre alle 10, nel giorno in cui avvenne la calamità, sarà presieduta dall’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori. A concelebrarla gli “angeli del fango” Gualtiero Bassetti, cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Angelo Scola, cardinale arcivescovo di Milano, Luciano Monari, vescovo di Brescia, Luigi Marrucci, vescovo di Civitavecchia-Tarquinia, Italo Castellani, arcivescovo di Lucca, e Diego Coletti, emerito di Como. Altro “angelo del fango” è stato il vescovo Mansueto Bianchi scomparso lo scorso agosto. L’Arno ruppe i suoi argini alle 2.30 del 4 novembre e un’ondata improvvisa di milioni di metri cubi di acqua si riversò sulla città fino alle 22. Nella zona di Santa Croce l’acqua raggiunse i sei metri di altezza. «Firenze è un immenso lago immerso nelle tenebre», scriveva l’Ansa la sera di quello stesso giorno. Nella notte il livello dell’acqua cominciò a calare. La mattina di sabato 5 novembre (una giornata chiara, quasi senza nubi) il fiume era quello di sempre, ma aveva lasciato dietro di sé un’immensa palude di fango. Diciassette furono i morti nel capoluogo toscano e diciotto in provincia. In migliaia si ritrovarono con la casa o la bottega inagibile. Centinaia le opere d’arte colpite, fra cui il celebre Crocifisso di Cimabue. Sommersi i volumi della Biblioteca Nazionale.