Chiesa

LA CRISI. L’Italia dei consacrati alla solitudine

Giacomo Gambassi venerdì 6 agosto 2010
Prima di tutto la loro è una scelta controcorrente. «La solitudine di cui oggi si ha terribilmente paura viene desiderata e inseguita dall’eremita che rovescia questo timore e cerca ciò che gli altri fuggono», spiega Isacco Turina, ricercatore di sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna, che negli anni scorsi ha compiuto un’indagine sui «monaci del silenzio» in Italia. La fotografia del romitaggio contemporaneo che Turina ha scattato nel libro I nuovi eremiti pubblicato da Medusa è quella di un’esperienza diffusa da Nord a Sud che «conta un’alta percentuale di donne» e che ha per protagonisti «gente di pianura», secondo la definizione del ricercatore. Nel senso che «gli eremiti che ho incontrato non sono nati in un ambiente remoto, come può essere la montagna, ma hanno alle spalle una vita di città, spesso ricca di relazioni. Quindi la loro scelta non è tanto un ritorno alle origini ma piuttosto un movimento verso il deserto che non apparteneva alla loro biografia».Una vita, quindi, consacrata alla lode di Dio e "lontana" dalla routine. «Al centro – afferma il ricercatore – c’è sempre la preghiera che ha il suo fulcro nella liturgia delle ore. Ad essa si aggiungono la meditazione, la lettura, l’eventuale incontro con chi giunge per una visita e a volte la direzione spirituale». Già, perché la fuga mundi non è sinonimo di "clausura". «Diciamo che l’eremita di oggi non si estranea sempre dai rapporti sociali. Ma privilegia la qualità degli incontri alla quantità». E spesso accade che a lui (o a lei) si rivolga l’uomo in ricerca. «È vero – sostiene Turina – che gli eremiti costituiscono poli di attrazione per coloro che muovono i primi passi in un itinerario di fede».Ed ecco un loro possibile identikit. «Si tratta di una persona che inizia il suo cammino eremitico fra i 30 e i 50 anni. Prima di arrivare a un assetto definitivo, segue un percorso che dura anche venti anni in cui la sua vocazione adulta ha modo di plasmarsi su parametri spirituali che vengono ritagliati anche in base alla storia personale». Non è un caso che «molti degli eremiti in Italia siano stati in precedenza parroci, missionari o religiosi che appartenevano a precise congregazioni». Così quando si fa riferimento ai solitari della fede, si può parlare di «rinnovata vocazione» perché, sottolinea il sociologo, «avvertono una chiamata contemplativa che si sovrascrive a passate esperienze di vita attiva all’interno della Chiesa».Certo, i nuovi asceti del terzo millennio non passano le giornate soltanto sul monte. «Le loro dimore – racconta l’esperto – possono essere edifici abbandonati che ad esempio vengono concessi da un vescovo, antichi eremi da risistemare, abitazioni in un paese o in città». E infatti ci sono anche gli eremiti metropolitani. «È un’esperienza più comune di quanto possa apparire. Dato lo stile di vita della città odierna dove di fatto molti già vivono da eremiti, c’è chi decide in modo preciso e consapevole di avere un’esistenza con pochi rapporti che proprio la metropoli favorisce. Va detto comunque che l’eremitismo di città era già presente a Costantinopoli in epoca medievale e lo prevedeva il monachesimo orientale».Cifre su questa forma "moderna" di vita consacrata non sono a portata di mano. Però, nella sua ricerca, Turina aveva stimato nella Penisola dalle cento alle duecento persone che «a tempo pieno hanno una vita monastica in forma individuale o in due, senza costituire una comunità». Almeno questa era la definizione che aveva dato il ricercatore, anche se quella ufficiale si rifà al codice di diritto canonico in cui l’eremita è colui che «in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine, nella continua preghiera e penitenza» professa poi «pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del vescovo». Fra le diocesi in cui l’esperienza è particolarmente diffusa – conclude Turina – ci sono Padova, Brescia e Fiesole.