Chiesa

La chiesa che soffre. Morire per la fede

Lucia Capuzzi sabato 4 gennaio 2014
«Fino a quando, Signore, invocherò il tuo aiuto senza che mi ascolti e urlerò la violenza imperante senza che Tu venga a salvarmi?». Il 15 ottobre, monsignor Miguel Patiño Velázquez si accostò al pulpito e lanciò il suo grido di pastore per denunciare – con le parole vibranti del profeta Abacuc – la ferocia dilagante. Nel suo Stato, il Michoacán, nel resto del Paese, il Messico, e del Continente, l’America Latina. Due settimane dopo, le Nazioni Unite hanno confermato indirettamente le affermazioni del vescovo di Apatizgán: il Continente, con oltre 100mila omicidi all’anno, resta il più violento del pianeta. Ben lo sanno i testimoni che scelgono di annunciare – con i discorsi e la vita – il Vangelo. A costo di pagare con il sangue il loro impegno. Anche quest’anno, la regione si aggiudica il drammatico record di operatori pastorali uccisi. Su 22 assassinii perpetrati su sacerdoti, religiosi e laici nel mondo, quindici sono avvenuti in America Latina. È la quinta volta consecutiva che il Continente si colloca in testa alla classifica. A rivelarlo, l’ultimo rapporto dell’agenzia Fides che mostra un preoccupante incremento delle aggressioni contro gli operatori pastorali. Nel 2012, in 13 avevano donato la vita per il Vangelo. L’anno appena trascorso sono stati poco meno del doppio. Le 15 vittime latinoamericane sono tutti sacerdoti. I delitti sono avvenuti in sei Paesi: Colombia, anche stavolta al primo posto, con sette omicidi, e Messico, con quattro vittime. Il resto in Brasile, Venezuela, Panama e Haiti. Si tratta, spesso, di tentativi di rapina finiti in tragedia. Non solo, però. In Messico e, in minor misura, in Colombia, preti, catechisti, diaconi, religiosi sono bersaglio della criminalità a cui si oppongono. La Chiesa – e i suoi pastori – è scomoda per i «signori del narcotraffico», che, in forma di gruppi guerriglieri e paramilitari, controllano ampie zone della Colombia. E, soprattutto, del territorio messicano. Negli ultimi sei anni, oltre 100mila persone, in maggioranza civili, sono morti nell’offensiva al crimine lanciata dal precedente presidente Felipe Calderón. Altre 26mila sono scomparse nel nulla. Nelle aree remote del Paese si aprono come ferite le fosse comuni coi cadaveri delle migliaia e miglia di migranti rapiti e uccisi. La strategia di affrontare la delinquenza con mezzi militari – cioè schierando l’esercito – ha prodotto l’effetto perverso di far dilagare la violenza senza scalfire il potere dei narcos. Questi ultimi vedono nella predicazione cristiana una sfida aperta alla loro egemonia. Non sorprende: sono sacerdoti i più accaniti difensori del mezzo milione di migranti centroamericani che attraversano il Messico nel viaggio verso gli Usa. La sessantina di rifugi sparsi per la nazione sono spesso l’unica garanzia di protezione per gli «indocumentados» dalle minacce dei criminali. L’azione della Chiesa è stata fondamentale per dare visibilità al fenomeno dei desaparecidos e per sensibilizzare contro la violenza. Questo spiega l’accanimento: il Centro Católico Multimedial ha rivelato 1.465 richieste di estorsione a parrocchie e diocesi. Nelle ultime settimane, i criminali hanno tentato di rapire tre sacerdoti, sfuggiti all’ultimo ai malviventi. Altri due risultano scomparsi. Ma la Chiesa non si arrende. Come hanno ribadito i vescovi messicani nel messaggio di Natale: l’amore di Gesù «è una forza capace di trasformare il nostro Paese e il mondo».