Chiesa

Cei. Russo: un piano straordinario, guardiamo ai nuovi poveri

Mimmo Muolo giovedì 9 aprile 2020

Il segretario generale della Cei, Stefano Russo

Straordinario e capillare. Sono i due aggettivi che il vescovo Stefano Russo, segretario generale della Cei, spende per definire lo stanziamento di 200 milioni di fondi 8xmille, deciso ieri dalla Conferenza Episcopale Italiana, come ulteriore contributo nell’emergenza coronavirus. «Straordinario – spiega – non solo per l’entità, ma perché straordinaria è la situazione che stiamo vivendo. E capillare in quanto le risorse saranno impiegate sul territorio dalle singole diocesi, in modo da raggiungere le situazioni di più effettivo bisogno».


Sarà come una sorta di Piano Marshall della Chiesa italiana per aiutare famiglie in difficoltà, volontariato e enti ecclesiastici. Ci può dire più nel dettaglio come saranno spesi i soldi?

Non so se si può definire un piano Marshall. Certo, la cronaca di questi giorni è eloquente. Ai poveri di prima si aggiungono quei nuclei familiari che hanno perso o rischiano di perdere il lavoro e quindi la fonte di sostentamento. I nostri volontari sul territorio, in primo luogo le Caritas diocesane e parrocchiali, ci segnalano che sta aumentando dal 20 al 50 per cento la presenza di persone che si rivolgono alle mense e alle altre reti di aiuto. Le situazioni di indigenza si stanno moltiplicando. A queste realtà bisognerà far fronte per diversi mesi e perciò vanno sostenuti coloro che conoscono le situazioni e possono farsi prossimi. La capillarità dell’intervento sarà importante proprio per distribuire nella maniera più efficace possibile gli aiuti.

Tra i destinatari figurano anche gli enti ecclesiastici. Perché?

Le difficoltà economiche toccano anche tante parrocchie che si trovano a far fronte come sempre alle spese ordinarie e straordinarie ( l’aiuto a chi bussa in cerca di pane, per esempio, e sono sempre di più, come abbiamo detto), senza poter contare sulle normali entrate. Il bilancio delle parrocchie è fatto principalmente di offerte. Aiutiamo, dunque, gli enti ecclesiastici, perché continuino ad aiutare.

Che cosa succederebbe se questo intervento della Chiesa venisse meno?

La realtà è sotto gli occhi di tutti. Succederebbe certamente che tante situazioni in cui la Chiesa in Italia interviene capillarmente non avrebbero più sostegno. Solo per restare all’emergenza di questi giorni vorrei ricordare tutte le strutture che le nostre diocesi hanno messo a disposizione della Protezione Civile per il personale sanitario in servizio agli ospedali, per chi deve stare in quarantena e anche per i senza dimora (più di 2mila posti complessivamente). Senza questi interventi la lotta al Covid–19 sarebbe molto più difficile. E questa è solo la punta dell’iceberg di quanto si sta facendo a tutti i livelli.

I 200 milioni sono stati presi dai fondi dell’edilizia di culto.

Questo aiuto straordinario, recuperato essenzialmente dalla finalità cui era destinato, cioè l’edilizia di culto, è una risposta concreta all’emergenza che stiamo vivendo. Come Segreteria Generale, abbiamo quindi impegnato le risorse proprio per sostenere le necessità delle persone che, in questo momento, prevalgono sugli edifici. Non facciamo l’errore di mettere in competizione le persone con le strutture.

Nelle scorse settimane alcuni hanno lamentato che la Chiesa italiana abbia destinato poche risorse all’emergenza coronavirus. Come risponderebbe a queste voci?

Alle risorse messe a disposizione dalla Cei vanno aggiunti tutti gli interventi che si stanno effettuando sul territorio, curati da diocesi, parrocchie, enti e associazioni. C’è una grandissima vivacità di iniziative che il portale “Chi ci separerà” mette bene in evidenza e che dimostra l’attenzione da parte delle nostre comunità a tutte le forme di bisogno. Potremmo dire che la Chiesa italiana non ha stanziato solo soldi, ma soprattutto gesti, prossimità, “carezze”, consolazione, affetto, disponibilità. L’opera di un volontario che porta la spesa a casa di chi è anziano, solo, malato e non può uscire non è quantificabile in termini meramente economici. Ma non è meno importante di un’offerta di denaro.

Che cosa dice dunque alla Chiesa l’emergenza coronavirus?

Questa situazione ci provoca ad essere testimoni autentici di Cristo. Capisco che in un tempo così centrale come la Pasqua sentirsi impossibilitati a prender parte alle celebrazioni costituisca una privazione. Ma non per questo viene meno la nostra fede e la nostra appartenenza alla Chiesa. Restare a casa è un atto di amore che facciamo nei confronti delle persone, perché ci interessa la vita di tutti, non solo di quelli che sono cristiani. Alla fine verremo riconosciuti dall’amore che avremo gli uni per gli altri e giudicati proprio sull’amore. Toccare la carne di Cristo, toccare il suo corpo è prendere su di noi il dolore per i poveri, la sofferenza dei malati, il lutto delle famiglie.