Chiesa

INTERVISTA. Versace: «Anche Montini arrivò a valutare quel passo»​

Gianni Santamaria martedì 12 febbraio 2013
Poteva esserci già con Paolo VI un precedente di rinuncia al papato nella storia recente del Pontifi­cato. Di sicuro la lettera in que­sto senso preparata da Papa Montini già dopo aver scritto il suo testamento spirituale, testimonia come i successori di Pietro abbiano sempre in mente l’importanza della pro­pria integrità fisica e menta­le. Ma anche che se il servizio petrino lo si può lasciare, non si lascia mai la paternità ad esso connaturata. «La lettera era da consegnarsi ai cardinali nel caso si fossero verificate condizioni di impos­sibilità a proseguire nel mini­stero. Con preghiera di appro­varla, cosa che era prevista pri­ma delle riforma attuata da Gio­vanni Paolo II nell’83. Questo e­ra il contenuto, riportato dal se­gretario del Papa, monsignor Pasquale Macchi. Il Papa teme­va di potersi ammalare grave­mente e diventare incapace di svolgere i suoi compiti», spiega Eliana Versace, docente di Sto­ria della Chiesa contemporanea alla Lumsa.
Dell’esistenza del­lo scritto, non del suo contenu­to letterale, si è venuti a cono­scenza da alcuni mesi, poiché se ne parla nella Positio appro­vata il 20 dicembre dalla Con­gregazione per le cause dei san­ti, dopo la quale Benedetto XVI ha firmato il decreto di ricono­scimento delle virtù eroiche del predecessore. Ma già il suo se­gretario, monsignor Macchi, ne aveva parlato in alcune sue pre­cedenti pubblicazioni. «Però ci pensava da tanto – pro­segue la Versace –. E pensava anche che queste dimissioni da Pontefice romano e pastore u­niversale della Chiesa dovesse­ro essere accettate. Per questo raccomandava che vi fosse l’ap­provazione del collegio cardi­nalizio. Questa è la differenza rispetto alla procedura adotta­ta da Ratzinger, che si è avvalso della possibilità per il Papa di dimettersi introdotta da Wojty­la nel 1983. Paolo VI temeva, in­somma, l’eventualità di essere improvvisamente colto da una malattia che lo rendesse inabi­le o incapace di intendere e vo­lere. E, in questo caso, non vi sa­rebbe stata un’autorità a lui pa­ri in grado di accettare la sua ri­nuncia. «O anche una malattia che gli impedisse di continua­re a svolgere adeguatamente il suo compito – precisa la stu­diosa –. Lui si è speso tanto e voleva continuare fino alla fine. Però se le forze non avessero retto... Certo, l’idea della com­presenza di due Papi era un problema. Per questo si pensa che potesse ritirarsi in un mo­nastero. Magari benedettino, vi­sta la predilezione che aveva per questo ordine». Il Papa di Concesio, va ricorda­to, è stato il primo successore di Pietro a viaggiare in tutti i continenti e conobbe tempi dif­ficilissimi caratterizzati da drammi come quello dell’ami­co Aldo Moro e dalla contesta­zione. «Erano anni in cui la Chiesa aveva bisogno di una guida forte. E lui sentiva venire meno le sue forze. E siccome si riteneva un padre, diceva già nel 1967 al suo amico Jean Guitton che «se un papa non ha l’abitu­dine di andare in pensione pri­ma della fine è perché non si tratta tanto di una funzione quanto di una paternità». E pa­dre sarebbe rimasto anche se i suoi figli non avrebbero più po­tuto vederlo.