Chiesa

Intervista . Il patriarca libanese Raï: non chiamateci minoranza

Stefania Falasca, Beirut venerdì 22 marzo 2019

Il patriarca libanese Béchara Boudros Rai (Ansa/Osservatore Romano)

Il cardinale Béchara Boutros Raï, 79 anni, è patriarca di Antiochia dei Maroniti. Ha ottenuto la licenza in teologia alla Pontificia Università Lateranense di Roma ed è stato ordinato prete nel 1967. Nel 2011 è stato eletto 77° successore di san Marone durante il Sinodo straordinario e Benedetto XVI gli ha concesso l’ecclesiastica communio. È stato creato cardinale da Ratzinger nel 2012.

«Non possiamo più sostenere oltre un milione e mezzo di profughi siriani in un Paese che è più piccolo della Sardegna. È necessario che l’Unione Europea non vincoli il loro rientro in patria alla soluzione politica della crisi in Siria». Così il patriarca maronita Béchara Boutros Raï ricevendo nella sua residenza a Beirut giornalisti e operatori della comunicazione al termine di una visita in Libano organizzata grazie all’Opera Romana Pellegrinaggi. Il cardinale libanese ha illustrato i pericoli che mettono a repentaglio il sistema democratico e l’equilibro tra cristiani e musulmani sancito dalla Costituzione che fa del Libano un unicum nell’area mediorentale.

Eminenza, come è stata recepita nel suo Paese la visita del Papa ad Abu Dhabi e la firma del documento con l’imam Al Teyyeb sulla fratellanza?

Noi siano abituati a una convivenza, ovunque ci sono religioni diverse che vivono nello stesso territorio, ma quello che caratterizza il Libano è una vita in comune tra cristiani e musulmani organizzata dalla Costituzione e dal patto nazionale. Dunque è normalissimo per noi libanesi che il Papa sia andato negli Emirati Arabi. Anzi dicono: san Paolo VI, san Giovanni Paolo II, papa Benedetto hanno visitato il Libano perché papa Francesco non viene? Io rispondo sempre che papa Francesco ha un’agenda differente: ama andare nei luoghi che trova un po’ scottanti. Quello che è stato fatto ad Abu Dabhi ha dato una spinta avanti sia ai musulmani sia ai cristiani e noi vogliamo che il Papa continui a venire in questa regione perché questo aiuta. Perché c’è una politica che vuole mostrare che le religioni, le culture diverse non possono convivere e quindi impongono guerre. Così pagano, mandano armi, sostengono terroristi e distruggono Paesi e questo crea fondamentalismi e integrismi e noi come cristiani ne paghiamo il prezzo.

Il presidente libanese Aoun ha detto una volta che il rischio per i cristiani in Medioriente non sono solo le guerre ma anche una certa sete di denaro e il fatto di dover chiedere sempre aiuti e protezione dall’esterno come una minoranza assediata. Lei è d’accordo?

Noi non vogliamo protezione. Mai la protezione ci ha aiutato. La politica occidentale ha fatto i suoi interessi, non ha mai dato valore ai cristiani. Adesso ci invitano alle conferenze a parlare della situazione dei cristiani nel Medioriente. Noi diciamo: voi ci avete distrutto con le guerre che avete sostenuto e imposto!. Ci avete distrutto e adesso venite a chiedere della nostra presenza. I cristiani sono elemento essenziale per il Medioriente. In Libano abbiamo un ruolo di equilibrio come parte integrante del mondo arabo. Vogliamo solo che la politica internazionale rispetti questo. E riguardo alla minoranza: per favore non usate questa parola.

Noi cristiani non siamo minoranza per due motivi: storico e teologico. Storico: i cristiani si trovano nel Mediorente da duemila anni. Siamo originari, non possiamo essere stranieri. Teologico: i cristiani del Mediorente non sono individui sparsi è la Chiesa di Cristo presente qui come a Roma o a Honolulu. È la Chiesa di Cristo, non ha minoranze, è Chiesa. L’ho detto in Vaticano e anche l’imam Al Tayyeb diceva due anni fa all’università di Al Azhar rivolto ai musulmani: “Noi non dobbiamo mai usare la parola minoranza per i cristiani perché questa parola non si trova neanche nel Corano. Dobbiamo dire ‘cittadini cristiani’”.

Il Libano ha accolto più di un milione e mezzo di profughi siriani. Che cosa comporta questo anche per l’equilibrio del Paese?

Il Paese esce da una guerra civile che è durata 15 anni dal 1975 al 1990. Poi dal 1990 al 2005 la presenza siriana, oltre all’occupazione dei territori da parte di Israele, ancora adesso c’è una parte occupata. In trent’anni sotto pressione si è impoverito molto. E non riusciamo a salire perché nel 2011 ancora le guerre nella regione hanno interrotto le vie di uscita di merci del Libano verso i paesi arabi. Adesso il grande problema che noi abbiamo sono i rifugiati siriani. Non possiamo chiudere le porte. Cinquecentomila palestinesi si trovano già in Libano dal 1948. E aspettano la soluzione politica da più di settant’anni. Una soluzione che non verrà mai. Si parlava della soluzione di due Stati ma è impossibile, perché quella terra che era destinata ad essere lo Stato palestinese è tutta seminata di colonie israeliane. Ora i siriani. La situazione internazionale politica li convince a rimanere e non tornare nel loro Paese. Noi abbiamo una densità di rifugiati pari a 200 profughi per chilometro quadrato. È come se l’Europa fosse chiamata a accogliere 150 milioni di rifugiati che salgono dalla Libia. Ma come può vivere e aiutare il Libano che ha il 30 per cento della popolazione sotto la soglia della povertà e il 40 per cento di disoccupati? Gli alunni siriani nelle scuole statali sono 400mila, mentre quelli libanesi sono 300mila. Lo Stato deve fornire loro libri e insegnanti. Il prolungarsi della presenza dei profughi siriani in Libano ha ripercussioni gravi a livello economico, sociale, demografico, politico e di sicurezza. Quindi il Libano sta pagando fortemente questa presenza. Ormai non possiamo più.

Secondo lei l’Unione Europea dovrebbe assumersi maggiore responsabilità riguardo all’emergenza dei rifugiati in Libano?

Noi sollecitiamo la Comunità internazionale a separare la soluzione politica della Siria dal ritorno in patria dei profughi. La priorità è il ritorno dei profughi. Non possiamo aspettare settantuno anni come con i palestinesi e non c’è ancora soluzione. Purtroppo però ci sono interessi politici per cui la Comunità internazionale e l’Unione europea non voglio separare le due questioni.

Qual è il rischio per il sistema governativo?

La Costituzione e il Patto nazionale che organizza il sistema governativo stabilisce un numero uguale dei rappresentanti musulmani sunniti e sciiti e cristiani. I siriani sono musulmani sunniti, anche i palestinesi sono sunniti. Due milioni in totale. Se il numero dei cristiani specialmente si ridurrà e gli altri aumenteranno, un giorno diranno non siamo più pari quindi sarà la presenza musulmana a prevalere e il Libano perderà tutte le sue prerogative identitarie e la sua missione. Salterà il sistema pluralistico libanese. L’articolo 9 della costituzione dice: il Libano rendendo omaggio a Dio rispetta tutte le religioni e garantisce statuti personali. Vuol dire che il Parlamento libanese non legifera nulla che sia contro la legge divina, sia che sia musulmano, ebreo o cristiano. Il suo valore è che è in mezzo al mondo musulmano ha potuto garantire la democrazia, le differenze e le culture. Questo è quello che hanno creato i libanesi. Noi vogliamo mantenere questo. Ma adesso il pericolo che diventi un paese confessionale come gli altri Paesi del Medioriente è possibile.