Chiesa

Intervista alla sorella. «Padre Hamel ci chiama all'unità e alla solidarietà»

Gianni Cardinale sabato 22 aprile 2017

Padre Hamel, ucciso da due terroristi islamisti mentre celebrava Messa

Roselyne è la sorella di padre Jacques Hamel, il sacerdote francese sgozzato da due giovani fondamentalisti islamici all’alba del 26 luglio 2016 a Saint-Etienne-du-Rouvray mentre celebrava Messa, e di cui è iniziato il processo di beatificazione per martirio. Accompagnata dalla figlia Angélique è venuta appositamente a Roma per partecipare al momento di preghiera presieduto da Papa Francesco nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina con la Comunità di Sant’Egidio, nel corso del quale ha tenuto la sua testimonianza. Avvenire l’ha incontrata prima della celebrazione. «Jacques diceva sempre – racconta – che non è difficile amare il prossimo, lo si può fare con piccoli gesti quotidiani. Con la sua beatificazione che speriamo vicina, i credenti e i non credenti di tutte le nazioni attraverso i loro piccoli gesti quotidiani verso il proprio prossimo preserveranno la memoria di padre Jacques».

Madame Roselyne, che ricordo ha di suo fratello?
Avrei molte cose da dire. È morto a 86 anni e io sono di dieci anni più giovane. Abbiamo vissuto molti anni insieme. Lo abbiamo visto crescere nella fede. Anno dopo anno è divenuto più anziano ma fino al suo ultimo respiro ha comunicato la Parola di Dio con freschezza. Le sue omelie erano sempre vivificanti.


Quando lo ha visto l’ultima volta da vivo?
La sera prima che è stato ucciso. Ero andata a trovarlo con la mia famiglia e ci ha accolto con gioia. Aveva ripulito la canonica per ospitarci. Era un po’ preoccupato perché eravamo arrivati in ritardo rispetto al previsto. La sera a cena eravamo in otto. Ci disse che era molto contento che stavamo con lui. Oggi, ricordando quelle sue parole, il mio pensiero va alle parole di Gesù nell’Ultima cena, quando disse che aveva desiderato ardentemente di mangiare con i suoi discepoli.


Come si sente ad essere testimone di un testimone della fede in cammino per essere riconosciuto martire dalla Chiesa?
È molto importante per me essere presente a questa celebrazione qui a Roma. Perché la testimonianza di mio fratello Jacques è per tutto il mondo. Quando sono venuta a settembre per portare il suo breviario nella Basilica mi ha colpito una parola che ho sentito durante cerimonia. E cioè che la sua morte è stata un "dono" di Dio. In quel momento non ne ho inteso bene il senso. Oggi lo comprendo meglio. Ho visto i frutti della sua morte. Gli abitanti di Saint-Etienne si sono uniti per pregare, per stare insieme. Ho visto molti segni di solidarietà, di dono di sé, di unità. Nella comunità, nella città, c’è stata incomprensione nei confronti di chi ha ucciso, ma non collera né odio.


Lei che sentimento nutre verso i ragazzi che hanno ucciso suo fratello?
Mai sentimenti di odio verso quei ragazzi. La nostra collera è verso quelli che hanno manipolato la loro mente, la loro fragilità. Personalmente ho pensato ai genitori di questi giovani. Alla sofferenza delle loro mamme. Alla madre del giovane originario di Saint-Etienne che ha "perduto" il suo figlio. La mia sofferenza è immensa, ma la sua è maggiore.


L’ha incontrata?
Sì. Pochi giorni fa. Lunedì dell’Angelo, subito dopo Pasqua. Ho chiesto questo incontro. L’ho voluto. E ho sentito che anche la mamma lo attendeva. Ne aveva bisogno anche lei. È stato un bell’incontro. Intenso e umano.


Suo fratello era in dialogo con la Comunità musulmana. Intende continuare questo cammino?
Ai funerali di Jacques parteciparono anche i leader islamici e alla fine della messa andai a salutarli per rassicurarli che non nutrivo odio nei loro confronti. È mio desiderio mantenere i legami che mio fratello aveva con i musulmani di Saint-Etienne.