Chiesa

L'INTERVISTA. L'imam egiziano: dobbiamo scrivere una «carta» del rispetto

Paolo Viana giovedì 20 settembre 2012
​Sorprende i cristiani perché, lui musulmano, è il traduttore di don Giussani nella lingua araba, ma l’interesse con cui segue le vicende della Chiesa non stupisce i suoi connazionali, perché Abdel Fattah Hassan è un imam e il dialogo con chi crede in un altro Dio è uno degli interessi prioritari di un leader religioso e politico. L’islam è quest’unità di fede e vita civile e quando Abdel Fattah dice di condividere «pienamente» l’appello del Papa e che «l’Egitto è un modello di come dovrebbero essere organizzati i rapporti tra le religioni» il suo non è solo il giudizio dell’intellettuale - è ordinario di letteratura italiana all’università Ain Shams del Cairo - ma anche di uno dei leader dei Fratelli Musulmani, impegnati, ci spiega, a «gettare ponti». Il Papa lancia un messaggio di pace al Medio Oriente, a undici anni dalle Torri Gemelle. Come lo valuta?La sua visita è importante perché il Libano è un simbolo di convivenza, un mosaico di maroniti, cristiani, sciiti, sunniti... una lezione da assimilare e che sorprende sempre. È nei momenti di passaggio come questo che deve risuonare la voce dei leader e l’appello del Papa contiene gli stessi concetti dell’intervento del presidente Morsi al Quirinale. Parole che rispondono a un bisogno: dopo l’11 settembre abbiamo più profughi e più tiranni, meno rispetto dei sentimenti religiosi, un groviglio che si è iniziato a districare con la primavera araba, ma c’è ancora molto da fare.Benedetto XVI dice di aver colto durante la sua visita apostolica un «forte segno di speranza». Lo condivide?Lo condivido pienamente. Dal suolo libanese il Papa ha visto con suoi occhi l’esempio concreto della pace costruita con tutti i colori dell’arcobaleno. Sappiamo che non tutti i Paesi sono in queste condizioni, che molti si stanno liberando solo ora dal giogo della tirannia, ma il futuro sarà sensibilmente migliore del passato. Benedetto XVI ha detto ai musulmani che è venuto «il momento di dare insieme una testimonianza sincera e decisa contro le divisioni e le guerre». L’invito sarà raccolto?Ripeto quello che dicevo quand’ero imam vicario di Roma. L’islam corretto e moderato è sempre disponibile a lavorare insieme in questa direzione, in Medio Oriente come in Europa. I leader religiosi hanno la responsabilità storica di diffondere la giusta comprensione delle rispettive religioni e lottare contro le devianze: ci sono fanatici tra i musulmani, i cristiani e gli ebrei. Le violenze seguite alla diffusione di un film blasfemo contro Maometto sono un esempio delle tragiche conseguenze della deriva in cui si precipita quando la libertà di espressione viene confusa con la libertà di seminare odio. Si può ipotizzare una road map del dialogo?Il dialogo è avviato da anni: in Italia nel 1999 ho assistito nell’ambasciata egiziana presso la Santa Sede al primo incontro tra al Azhar e il Vaticano. Tuttavia, c’è urgenza di incontrarsi per elaborare una carta che condanni le profanazioni e tuteli i simboli religiosi e i sacerdoti, diffondendo la cultura del rispetto. Come Fratelli Musulmani stiamo intensificando le relazioni con tutti i Paesi del mondo. Gettiamo ponti. Certo, l’Egitto è un Paese fortunato, perché musulmani e cristiani vivono da 1400 anni insieme. Tutti conoscono gli incidenti di Bengasi ma pochi sanno che cristiani e musulmani egiziani sono scesi in piazza per protestare spalla a spalla contro il film blasfemo ed è stata una protesta ferma e civile, come quella organizzata contro il Codice da Vinci che offendeva Cristo. Il mio Paese è un modello per i rapporti tra le religioni e la nuova Costituzione conferma il diritto alla libertà religiosa.