Chiesa

L'UDIENZA AI ROM. Il prete: nomade per il Vangelo, convertito al loro fianco

Lorenzo Rosoli sabato 11 giugno 2011
«Tutto quello che so, di questo in­contro, è che lo ha voluto fortemente papa Benedetto. L’iniziativa l’ha presa lui. Vuole parlarci, vuo­le ascoltarci. Noi non poteva­mo mancare», scandisce don Mario Riboldi, prete della Chiesa di Milano. Dire che è l’incaricato diocesano per la pastorale dei nomadi, è dir poco, e dirlo in ecclesialese. Il fatto che abbia questo incari­co dal 1971, dà l’idea di una dedizione fedele, evangelica­mente ostinata, ad una mis­sione difficile e affascinante. «Sono un prete che si è fatto nomade per portare il Vangelo a­gli zingari – dice di sé, alla vigilia di questa storica udienza in Va­ticano –. È dal 1970 che vivo con loro, viaggio con loro, sto nei loro insediamenti. La mia casa è una roulotte. Ho im­parato le loro lingue, la loro cultura. Non per fare il mae­stro: ma per essere scolaro, con loro, alla scuola della Pa­rola che salva. Per loro ho tra­dotto il Vangelo di Matteo in cinque lingue. Ero prete da poco quando incrociai un gruppo di sinti. E mi dissi: ma a loro, chi lo porta il Vangelo? Da allora continuo a cercare – con loro – la risposta a quel­la domanda. Per questo, sen­za poter diventare zingaro co­me loro, mi sono fatto noma­de: perché gli zingari sono un popolo, una cultura, una storia. Anche se l’evoluzione della ci­viltà europea sta 'ammazzando' il nomadismo, rende impossibile vivere davvero da zingari: queste comunità si vanno sedentarizzando e smarriscono così le loro pe­culiarità umane e culturali, la loro identità». Una sedenta­rizzazione spesso forzata, che non si fa vera integrazione ma deriva di emarginazione, pre­carietà, discriminazione. Nato a Biassono il 21 gennaio 1929, sacerdote dal 28 giugno 1953, don Riboldi ha iniziato a dedicarsi agli zingari fin da­gli anni ’50. Solo nel 1970 la diocesi gli permette di farsi «vagabondo» con loro e fra lo­ro. In mezzo, un lungo 'ap­prendistato', una prossimità coltivata con pazienza e a­more. E una data memorabi-­le: il 26 settembre 1965. Pao­lo VI si reca in visita agli zin­gari accampati a Pomezia, nel Lazio. Don Riboldi, come og­gi da papa Ratzinger, c’era an­che allora, da papa Montini. Lo conosceva bene, avendo­lo avuto arcivescovo a Milano. Ma anche Montini conosce bene il prete ambrosiano, tanto da onorarlo di una ci­tazione – il suo nome, al fian­co di altri apostoli dei gitani – nell’omelia della Messa.«Voi nella Chiesa non siete ai mar­gini, siete nel suo cuore, ci disse quel giorno Paolo VI – ricorda don Riboldi –. Quel che disse del cuore della Chiesa, era sicuramente vero per il suo cuore di pastore: lui aveva un affetto profondissi­mo, un’attrazione autentica per gli zingari. Perché – pos­so dirlo dopo tanti anni di e­sperienza – la Chiesa a paro­le ama gli zingari. E sono pa­role buone, preziose, in con­trotendenza, in una realtà che spesso semina parole di pau­ra e ostilità. Poi, però, anche i preti e i fedeli sono uomini del loro tempo, respirano i ti­mori e i pregiudizi degli al­tri, e non sempre alle parole seguono i fatti. Anch’io, do­po tanti anni, a volte faccio fatica, con i miei zingari. Ma ho anche scoperto la bellez­za della loro umanità. E la forza della loro religiosità: hanno un fortissimo senso di Dio, della fede, della vita oltre la morte – lo vedo fra i cristiani come fra i musul­mani –. Una religiosità natu­rale però da 'cristianizzare': con la Parola di Dio, la cate­chesi, i sacramenti, la pre­ghiera. Con la condivisione della vita, soprattutto. Che chiama me, prete vagabon­do, alla conversione. Giorno dopo giorno».