Chiesa

L'anniversario. I 40 anni della «piccola marcia» di don Riboldi contro la camorra

Marco Iasevoli mercoledì 9 novembre 2022

C’è stato un tempo, breve, in cui la gioventù napoletana ha pensato di poter sconfiggere la camorra. E a capo di questo movimento c’era un vescovo rosminiano, don Antonio Riboldi, un brianzolo (era nato a Tregasio il 16 gennaio 1923) trapiantato ad Acerra dopo aver lasciato una traccia significativa nel Belice (era parroco a Santa Ninfa dal 1958 quando nel 1968 la valle fu devastata da un violento terremoto).

A ricostruire quella stagione è Pietro Perone, giornalista de Il Mattino, la storica testata di Napoli e provincia. Perone fu testimone e protagonista del movimento studentesco e a nome degli studenti degli istituti superiori parlò dal palco al termine della storica marcia del 17 dicembre 1982, quando oltre 10mila ragazzi “occuparono” Ottaviano, il regno del boss Raffaele Cutolo che in quel giorno, però, divenne luogo della memoria di una figura più grande e luminosa: Mimmo Beneventano, medico e consigliere comunale del Pci a Ottaviano, credente ucciso dalla camorra il 7 novembre 1980 per quelle che oggi chiameremmo “battaglie ambientali”.

Ma pochi sanno che un mese prima della manifestazione-simbolo un migliaio di studenti, per tastare il polso alla città-polmone della Nuova camorra organizzata, animarono un’assemblea proprio nel liceo Diaz di Ottaviano: era il 12 novembre 1982 e don Riboldi era già lì, mentre i luogotenenti della potente malavita cutoliana scrutavano il corteo con gelida e ostentata indifferenza. È proprio a ridosso del 12 novembre, quarantennale della prima “piccola marcia” a Ottaviano, che Perone ha scelto di portare in libreria Don Riboldi 1923-2023, Il coraggio tradito (San Paolo edizioni, pp. 222, euro 18), con prefazione di monsignor Antonio Di Donna, attuale vescovo di Acerra che prosegue molte delle battaglie del suo predecessore. Non una biografia del vescovo anticamorra, ma la ricostruzione del rapporto causa-effetto tra le parole e i moniti di don Riboldi e l’iniziativa degli studenti. Un titolo che è anche un’ammissione: il movimento per la legalità tenne duro per pochi mesi e fu via via imbrigliato e burocratizzato da quella stessa politica che inizialmente aveva dato una spinta: il Partito comunista e la sua Federazione giovanile.

Don Riboldi è il punto d’inizio e il punto d’arrivo del racconto di Perone. Il giornalista individua l’origine di ogni cosa in una serata estiva del 1982, festa patronale di San Cuono e figlio. Ad Acerra, come nel resto della provincia napoletana, si sparava ogni giorno. Solo in quell’anno, la guerra di camorra contò 284 morti. Contro don Riboldi (che era stato nominato vescovo di Acerra da Paolo VI il 25 gennaio 1978) furono affissi dei manifesti, per invitarlo a «parlare dei missili», insomma a dare ragione di questioni geopolitiche. In Cattedrale, il vescovo spiazzò: « Io vi dico che siamo insidiati da missili che sono qui, dentro casa nostra. È la pace in casa nostra che è violata. Io intendo parlare di camorra». Le parole risuonarono anche oltre i confini regionali e a settembre gli studenti di Acerra, Pomigliano e dei comuni limitrofi partirono in quarta, sognando e poi realizzando la “grande marcia” di Ottaviano.

Come detto, ben presto il movimento giovanile perse la scia delle motivazioni iniziali. Non perse mai le motivazioni originarie, invece, don Riboldi. Che nel 1985 fece un gesto destinato a fare scuola: vietare l’intera parte “laica” della festa patronale, da tempo infiltrata dalla malavita. « Basta tangenti sui santi, quest’anno faremo a meno di cantanti e fuochi d’artificio, svolgendo soltanto funzioni religiose », disse il vescovo. E non perse lo spirito delle origini, don Riboldi, nemmeno nell’ultima sua incompresa, complessa e controversa battaglia: quella per dare una veste giuridica alla “dissociazione” dei camorristi, un’idea che portò avanti mentre si inspessiva il confronto in carcere ed epistolare con lo stesso Raffaele Cutolo. Il vescovo Riboldi lascerà poi la guida della diocesi il 7 dicembre 1999. Perone inserisce anche quest’ultima fase, generatrice di sofferenze e incomprensioni, nella cornice di una storia d’amore tra un pastore e il suo popolo.