Chiesa

Verso il Sinodo. Divorziati risposati, quale perdono?

Luciano Moia lunedì 3 agosto 2015
Famiglie ferite, divorziati risposati, riammissione ai Sacramenti. Quale strada imboccare per mettere a punto un cammino penitenziale che riesca ad evitare - come ha messo in guardia il Papa - da una parte l’«irrigidimento ostile» di chi si chiude dentro la lettera della legge, dall’altro il «buonismo distruttivo» di chi, in nome di una misericordia malintesa, vorrebbe fasciare le ferite prima di averle guarite? La premessa alla proposta formulata da trenta teologi, chiamati a riflettere insieme dal presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, è di quelle che non lasciano indifferenti. Comunque andrà, qualsiasi scelta venisse adottata su questi temi, «non sarà indolore per la Chiesa». Da una parte qualsiasi passo in avanti nella prassi pastorale nei confronti delle persone divorziate in nuova unione «potrebbe apparire come un cedimento inaccettabile» verso il principio dell’indissolubilità. Nei fatti e, forse ancora di più, nelle risonanze che avrebbe. Ma d’altra parte, se si decidesse di confermare l’attuale atteggiamento pastorale, occorre essere consapevoli che «la prassi esistente non è meno problematica e bisognosa di essere affrontata e chiarita nelle sue non poche contraddizioni». Così don Giampaolo Dianin, docente di morale e pastorale familiare alla Facoltà teologica del Triveneto, rettore del Seminario maggiore di Padova, introduce il terzo seminario di studi convocato per rispondere alle sollecitazioni sinodali dello scorso ottobre. Sull’opportunità e, soprattutto sulle modalità, di una via penitenziale da proporre ai divorziati risposati servono maggiori approfondimenti, aveva indicato la Relatio Synodi. E, nel giugno scorso, l’Instrumentum laboris, aveva ribadito il giudizio concorde, espresso attraverso il questionario da parte di tutte le conferenze episcopali, riguardo alla necessità di individuare un cammino adeguato per giungere ad una maggiore integrazione nella comunità ecclesiale delle persone divorziate in nuova unione. Attraverso un’analisi stringente, ma assolutamente misurata, don Dianin spiega perché a suo giudizio, nell’affrontare questa problematica, «non si tratta di trovare accomodamenti indulgenti, ma inevitabilmente di ripensare molti aspetti della teologia e della morale». E non bisogna neppure dimenticare che l’attuale prassi pastorale «sta evidenziando un fossato sempre più profondo tra la coscienza dei credenti e le norme morali della Chiesa». D’altra parte il rettore del Seminario di Padova non si nasconde che il problema delle coppie divorziate e risposate è molto più ampio, drammatico e dirompente di quello rappresentato dalla riammissione ai sacramenti. Si tratta proprio di riconquistare la fiducia di persone - centinaia di migliaia di persone - che, per la maggior parte, «si sono allontanate dalla Chiesa nel momento stesso in cui hanno rotto il loro matrimonio, pensando che non c’era più spazio per loro dentro la comunità». Un atteggiamento di diffidenza e di rassegnazione confermato anche dalle ricerche più recenti sul rapporto tra Chiesa e separati. Il teologo si dice consapevole che per queste persone non può esistere una «soluzione generalizzata», perché ogni storia è diversa dalle altre, e che in ogni caso una via penitenziale «non potrà che riguardare coloro che hanno forti motivazioni legate alla fede». Nessun cedimento inoltre sull’indissolubilità del matrimonio. Anzi, la serietà del percorso proposto «potrebbe alla fine diventare una sottolineatura ancora più forte del tesoro prezioso» che è appunto l’indissolubilità. Come potrebbe configurarsi allora questo cammino di riconciliazione? Don Dianin lo definisce "via discretionis". Nove i punti salienti che dobbiamo sintetizzare per motivi di spazio. 1) In ogni diocesi dovrebbe nascere un’equipe sotto la guida del vescovo per valutare caso per caso. 2) Dovranno essere attentamente valutate le ragioni che hanno indotto la coppia a intraprendere il percorso. 3) Andranno approfondite la possibilità di accedere al cammino di nullità e quella di vivere "come fratello e sorella". 4) Se queste soluzioni non sono praticabili il sacerdote indicato dal vescovo accompagnerà la coppia ad un cammino penitenziale e di verità. 5) Nel caso si tratti del coniuge innocente, il percorso dovrà prevedere anche un cammino di perdono. 6) Il percorso non sarà breve perché dovrà analizzare anche la solidità del secondo legame. 7) Sarà il sacerdote a valutare il momento più opportuno per chiudere l’itinerario. 8) La riammissione ai Sacramenti potrà essere piena o parziale. Si potrebbe per esempio limitarla al solo precetto pasquale o ad altri momenti importanti. 9) Dovrà essere chiaro che per la seconda unione non è possibile parlare di sacramento, pur riconoscendo l’alto valore umano e spirituale del nuovo legame.  Irrigidimento ostile o buonismo distruttivo? Estremamente variegate le posizioni degli altri teologi da cui arrivano sottolineature, aggiunte, proposte di aggiustamenti o anche espliciti pareri contrari. Don Alberto Bonandi, parroco e docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, osserva che «le riflessioni svolte possono essere valide anche a fronte di fedeli divorziati ma conviventi, che per motivi validi non accedono al rito civile del matrimonio». Mentre monsignor Alphonse Borras, docente a Lovanio e all’Istituto Cattolico di Parigi, sottolinea che «la sollecitudine della Chiesa nei confronti dei fedeli che hanno fallito nel loro matrimonio si fonda sull’esperienza di un Dio creatore e salvatore la cui sollecitudine precede - e accompagna - l’essere umano». Di taglio tutto esegetico il contributo di don Matteo Crimella, docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, mentre don Bruno Seveso, docente nella stessa facoltà, si chiede se il dibattito sul tema sia adeguato, o se invece non lasci trasparire qualche inadeguatezza per l’intento ultimo che, a suo parere, è quello di «mantenere in piedi la situazione attuale, limitandosi pertanto a semplici rattoppi». Don Eugenio Zanetti, canonista e vicario giudiziale della diocesi di Bergamo, ritiene che in un percorso penitenziale non dovrebbe mancare «una via di conversione all’amore che riguardi anche la vita sessuale», capace di considerare un’astensione temporanea o stabile dai rapporti sessuali. Sostanzialmente d’accordo con don Dianin invece don Maurizio Aliotta, docente allo Studio teologico San Paolo di Catania e padre Gian Luigi Brena, gesuita dell’Istituto Aloisanum di Padova. Ferma la posizione di padre José Granados, vicepreside del "Giovanni Paolo II" secondo cui il cammino penitenziale non può che tradursi in «un percorso di rigenerazione interiore della persona» con due soli esiti: la fine della nuova unione o una vita di continenza, perché «l’unica incongruenza che la Chiesa non può permettersi è l’incongruenza con la parola e l’opera di Gesù, è l’incoerenza con l’Eucaristia».3 - fine (le precedenti puntate sono state pubblicate giovedì 23 e martedì 28 luglio)