Chiesa

Le nuove porpore. Quevedo: «Con l’islam dialogo e rispetto reciproco»

Mimmo Muolo venerdì 21 febbraio 2014
Cardinale a 75 anni. Proprio non se lo sarebbe mai aspettato monsignor Orlando Beltran Quevedo, di ritrovarsi con la porpora addosso all’età che di solito per i vescovi è sinonimo di dimissioni offerte al Papa a norma del Codice di diritto canonico. E la sorpresa gliela leggi ancora negli occhi, a un mese dall’annuncio e alla vigilia del Concistoro in cui riceverà la berretta cardinalizia dalla mani di papa Francesco. «Sorpresa e choc», precisa con un sorriso il presule, arcivescovo di Cotabato, la diocesi dell’isola di Mindanao a più alta presenza musulmana. E mentre nel Pontificio Seminario Filippino di Roma si prepara all’evento, ricostruisce in questa intervista ad Avvenire sensazioni personali e situazione sociale e religiosa della sua terra. A partire proprio dal momento dell’annuncio. «Ero a cena – dice – il 12 gennaio scorso. E quando ho visto i primi messaggi di auguri sul telefonino, ho pensato a uno scherzo. Invece era tutto vero. Spero – afferma l’ormai imminente cardinale – che questa porpora possa servire la causa della pace e dello sviluppo nella mia terra. Perché di pace e di sviluppo abbiamo tanto bisogno».Che significa per la Chiesa di Mindanao avere un cardinale?Nei giorni scorsi alcuni fedeli mi hanno detto: "Che bello, adesso andrai a Roma a farti incoronare cardinale". E io ho risposto: "Si, ma di spine". Battute a parte, penso che non dobbiamo mai dimenticare chi è un cardinale. Non un privilegiato, ma un uomo di Dio che viene chiamato ad aiutare il Papa e gli porta la voce della sua gente. Io sarò dunque una specie di portavoce ufficioso della mia isola, affinché i problemi della gente – le spine, se vogliamo usare questa immagine – possano essere conosciuti da tutti e possibilmente risolti.E quali sono i problemi più urgenti dei quali lei intende farsi portavoce?La nostra prima necessità è dare forza al processo di pace, quindi la lotta alla corruzione politica e, questione strettamente connessa con quest’ultima, la lotta alla povertà. La nostra Chiesa è impegnata su tutti e tre i fronti.Lei è vescovo in una zona a forte presenza musulmana. È difficile la convivenza tra cristiani e musulmani?La convivenza nella vita di tutti i giorni è una cosa normale, per noi. I nostri ragazzi frequentano le stesse scuole, ci sono molti matrimoni misti, cristiani e musulmani lavorano fianco a fianco. E del resto ciò è inevitabile in una diocesi come la mia dove ci sono il 47 per cento di musulmani e il 48 per cento di cattolici. Anche a livello di capi religiosi ci sono contatti frequenti e amichevoli. I problemi sono a un altro livello, perché alcuni gruppi armati rivendicano non solo l’autonomia della provincia dal Governo centrale di Manila (come è adesso), ma anche la completa indipendenza. E usano la violenza attaccando prevalentemente obiettivi militari. Noi vescovi siamo invece convinti che solo il dialogo, il rispetto reciproco e il negoziato possano condurre alla vera pace.La sua azione di operatore di pace è riconosciuta anche dai musulmani. Quali sono state le reazioni dopo l’annuncio della sua porpora dal parte del Papa?Ho ricevuto messaggi di auguri pure da esponenti islamici, tra i quali anche alcuni leader del Moro Islamic Liberation Front (Milf). Per loro la decisione del Santo Padre, non potrà che essere un bene per la pace a Mindanao. E io spero che davvero sia così. Da parte mia il diventare cardinale mi responsabilizza ancora di più. E tutti dobbiamo essere consapevoli che per costruire la pace bisogna andare oltre gli equivoci e i fraintesi. In questo senso la migliore conoscenza reciproca, il dialogo, il rispetto delle regole e la sensibilizzazione a partire dalle scuole sono determinanti. Per noi cristiani la pace è fondamentale, l’islam si definisce una religione di pace. Su queste basi si può costruire una convivenza pacifica e affrontare gli altri problemi.Lei accennava infatti a povertà e corruzione. Qual è la situazione?I due problemi sono strettamente connessi. La nostra regione rimane l’area più povera delle Filippine e, nonostante la sua attuale autonomia, riceve circa il 98% dei propri finanziamenti dal Governo centrale. Tuttavia la corruzione sottrae moltissime risorse ai poveri. È stato calcolato che su ogni euro di finanziamento pubblico che arriva a Cotabato, solo 20 centesimi vanno effettivamente a buon fine. E questo è profondamente ingiusto. La lotta alla povertà passa dunque innanzitutto dalla lotta alla corruzione.Qual è il ruolo della Chiesa locale in questo contesto?Abbiamo da tempo avviato un programma di servizi sociali che si avvalgono dell’aiuto di gruppi di solidarietà in cui sono coinvolti imprenditori e professionisti locali. Ma le nostre risorse sono limitate, perché la Chiesa non è un’isola felice rispetto al resto della popolazione, anzi riflette esattamente le condizioni economiche generali. Io penso, però, che al di là dei programmi di aiuti materiali – che sono beninteso necessari – il contributo più importante che come comunità ecclesiale possiamo dare è di carattere educativo. Lottare contro la corruzione e formare la gente a un diverso modo di pensare e di agire.Lei ieri ha partecipato al Concistoro sulla famiglia. Qual è il contributo della Chiesa filippina rispetto alle questioni sul tavolo?Nelle Filippine le famiglie sono ancora molto unite. E quando i giovani si sposano spesso restano a vivere insieme ai genitori dell’uno o dell’altra. Ma anche noi cominciamo a risentire della secolarizzazione. Oggi abbiamo parlato anche di questo, ma soprattutto di come esprimere la vicinanza della Chiesa verso le famiglie in crisi e vero i fedeli che hanno alle spalle un matrimonio finito.