Chiesa

Umbria. La beata Margherita, la luce della carità oltre la cecità

Andrea Galli domenica 18 agosto 2019

Beata Margherita da Città di Castello

«Molti si stupirono di lui, tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo». Le parole del profeta Isaia nel canto poetico del «servo sofferente » potrebbero essere un epitaffio per la beata Margherita da Città di Castello o beata Margherita della Metola, dal nome della località con un fortilizio a Mercatello sul Metauro (Pesaro-Urbino) dove nacque nel 1287. Margherita venne al mondo infatti storpia, con una gamba più lunga dell’altra, cieca e con altri gravi deformità. Il padre Parisio era il capitano del fortilizio, la madre Emilia una donna di profonda fede. E infatti alla piccola, che accanto agli handicap fisici presentava un intelletto molto vivace e una notevole memoria, fu assicurata presto un’educazione cristiana che lei assorbì come il suo principale nutrimento. Un’anima prediletta, nella sofferenza


Fu battezzata nello stesso fonte dove ricevette il Battesimo, nel 1660, un’altra santa e mistica di origine marchigiana, Veronica Giuliani. La sua vita, per come è stata tramandata, poggia su una legenda che ci è giunta in due redazioni latine elaborate nella seconda metà del XIV secolo. Stando ad esse Margherita sarebbe stata sostanzialmente reclusa dai genitori, a più riprese e in diverse località, per l’imbarazzo che suscitava il suo aspetto e infine, tra i 16 e i 19 anni, sarebbe stata abbandonata presso la chiesa di San Francesco a Città di Castello in Umbria. Secondo una recente rivisitazione delle fonti fatta da monsignor Sergio Campana e Ubaldo Valentini, i genitori di Margherita avrebbero in realtà cercato di proteggerla, lei così vulnerabile, da un clima di violenza e di scorribande armate fra i Comuni di allora. Fino a ottenere per lei l’ammissione, tutt’altro che scontata allora, in un monastero.


Quello su cui tutti sembrano concordare è invece che da questa comunità di religiose Margherita fu allontanata, perché richiamava le suore, esplicitamente o con il suo comportamento, al rispetto della regola. E che poi, accolta in casa da due benefattori ed entrata fra le Mantellate – le terziarie domenicane – fu riconosciuta dalla città come una santa, una presenza di luce soprannaturale anche per le guarigioni che operò e la vicinanza cristiana che manifestò ai sofferenti. La sua fama si diffuse rapidamente. Un’autorità del tempo, fra Ubertino da Casale, tra i principali esponenti dell’ala rigorista del francescanesimo, mentre si trovava alla Verna intento a comporre la sua opera Arbor vitae, scrisse nell’introduzione di una misteriosa vergine consacrata e non vedente di Città di Castello, delle sue virtù, del suo dono della predizione e dei prodigi da lei compiuti. Morì a 33 anni, Margherita.


Nel 1609 papa Paolo VI la proclamò beata dopo un rigoroso processo presieduto dal cardinale Roberto Bellarmino. E il culto della sua figura non si è mai interrotto, grazie anche all’opera dei domenicani. Negli ultimi vent’anni c’è stato un revival di interesse, con pubblicazioni e biografie uscite negli Stati Uniti e in Francia. La diocesi di Città di Castello, in previsione del settimo centenario della morte della beata, l’anno prossimo, ha rimesso in moto la sua causa di canonizzazione formando un comitato apposito. «La beata Margherita, gravemente disabile, può essere di aiuto a molti oggi – dice il vescovo Domenico Cancian – il suo è un messaggio potente contro la cultura dello scarto. Da noi la devozione nei suoi confronti è ancora forte, ha lasciato un segno profondo. Diverse opere si sono ispirate a lei nella nostra città, come le suore che accoglievano i non vedenti».