Chiesa

DISCORSO ALLA SANTA CROCE. Magistero ecclesiastico e libertà dei laici nella vita pubblica

Card. Angelo Bagnasco sabato 12 novembre 2011
Un rispettoso saluto alle Autorità Accademiche, ai Docenti e studenti dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose, centro accademico della  Pontificia Università della Santa Croce. Un cordiale saluto a tutti i gentili convenuti a questo  significativo anniversario che fa memoria di 25 anni di attività.Il tema che mi è stato affidato riguarda il Magistero Ecclesiastico in rapporto all’ordine politico, nonché la libertà e la responsabilità dei fedeli laici nella vita pubblica. E’ un argomento che suscita giustamente  grande interesse perché di decisivo rilievo teoretico e pratico in ogni momento storico, anche il nostro. Diciamo subito che il Magistero di riferimento è tutta la Dottrina sociale della Chiesa, quel Corpus organico sempre aperto ad ulteriori approfondimenti, che riguarda la dottrina della fede declinata nelle situazioni storiche, come la società nel suo insieme, il lavoro, l’economia, la famiglia, le libertà fondamentali, gli Organismi internazionali, la pace e la guerra, e molti altri aspetti che intessono la vita umana personale e collettiva. Per inciso, anche se il 1891, con l’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, viene considerato come l’inizio della Dottrina Sociale della Chiesa, in verità è giusto riconoscere che gli interi ultimi due secoli sono stati  grembo fecondo della riflessione e del Magistero sociale - nelle diverse forme di Encicliche, Messaggi, Discorsi, Omelie - a cominciare da Gregorio XVI (Mirari vos, 1832) per giungere fino ad oggi con Papa Benedetto XVI (Caritas in veritate, 2009). Infatti, la Dottrina sociale ha un centro vivo dal quale discende e al  quale ritorna ogni aspetto della società, della politica e della storia: la persona. La Chiesa ha un’alta stima per l’attività politica: la dice “degna di lode e di considerazione” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 75) e l’addita come “forma esigente di carità” (Paolo VI, Octogesima adveniens, 46). Riconosce che la necessità di una comunità politica e di una pubblica autorità è inscritta nella natura sociale dell’uomo e quindi deriva dalla volontà stessa di Dio. D’altra parte, essa indica i limiti della politica, e vigila perché non diventi invadente o addirittura totalitaria.1.    Nella storia, il concetto di politica ha visto diverse interpretazioni. Senza soffermarci al mondo greco che ha tematizzato razionalmente il problema, mi pare opportuno mettere in evidenza la concezione di Niccolò Machiavelli che fu il primo assertore dell’autonomia della sfera politica rispetto a tutte le altre, in particolare dalla morale e dalla religione.  I fatti politici vengono da lui esaminati come nudi fatti, come eventi naturali e conclude che la politica non implica né l’affermazione né la negazione della morale; essa è una forza che non è possibile eliminare poiché è come una forza della natura che contribuisce a far camminare il mondo. Il suo unico obiettivo non è la realizzazione del bene comune, ma è l’affermazione del potere. Machiavelli diventa così un caposcuola, e dopo di lui si creeranno due indirizzi: uno favorevole e uno contrario alla sua tesi. Per esemplificare, possiamo citare Hobbes e Marx che affermano la completa autonomia della politica dalla morale e dalla religione; oppure troviamo  Campanella, Vico, Sturzo, che tentano di ricondurre la politica nell’alveo della morale. Oggi, bisogna riconoscere che una certa cultura radicale, ispirata dal diffuso nichilismo culturale, insiste sulla autonomia assoluta della politica dai valori etici oggettivi e quindi universali, e sostiene un’ autonomia individuale priva di limiti salvo quello di non disturbare gli altri.La società complessa che viviamo e l’incrocio di culture, visioni etiche e antropologiche differenti e a volte opposte, sfida l’impegno dei cristiani nella presenza nel mondo; impegno che, nei secoli, si è concretizzato in modo significativo anche nella partecipazione leale e attiva alla politica ricordando da una parte che essi “partecipano alla vita pubblica come cittadini” (Lettera a Diogneto, 5,5), e dall’altra che è loro preciso dovere animare cristianamente l’ordine temporale, rispettandone la natura e la legittima autonomia che è sempre in relazione a Dio creatore (cfr Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 36). In modo incisivo il Concilio afferma che i cristiani “devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica; essi devono essere d’esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune, così da mostrare con i fatti come possano armonizzare l’autorità e la libertà, l’iniziativa personale e la solidarietà di tutto il corpo sociale, la opportuna unità e la proficua diversità” (ib. n. 75).2.    Ora, perché quanto affermato circa il dovere di ogni cristiano di partecipare attivamente alla vita pubblica considerando le forme possibili e idonee per ciascuno, non suoni come assertivo e non argomentato, dobbiamo ricordare come l’uomo è. Diciamo subito che l’uomo è “unitotalità”, vale a dire che è una pluralità unitaria: in lui vi è una molteplicità di dimensioni – dall’intelligenza alla volontà, dai sentimenti alle sensazioni, dal corpo all’anima – che sono la sua ricchezza costitutiva. Ma questi elementi non sono sparsi, fanno unità ontologica, cioè sono indivisibili. E’ dunque una ricchezza unitaria, cioè una unità plurima non parcellizzabile. Tentare di separare i “piani” condurrebbe ad una sorta di schizofrenia nell’autopercezione che ucciderebbe l’individuo. La ricerca della sintesi, sia interiore che esistenziale, è una delle urgenze del mondo occidentale che invece spinge verso una  sempre più dilatata molteplicità delle visioni, sentimenti, esperienze: questa viene intesa come allargamento della vita, ma presto si rivela come dispersione della persona generando smarrimento ed angoscia. Se l’uomo non riesce a condursi ad unità – reductio ad unum – ciò che è e che vive nella molteplicità delle sue dimensioni ed esperienze, si arena nel deserto della frantumazione, e la sua vita perde senso, direzione, identità. Se questa è la condizione umana, allora si comprende che il credente non può mettere mai tra parentesi la sua fede, perché sarebbe mettere tra parentesi se stesso, vivere separato da sé. Proprio perché la fede è totalizzante, vale a dire salva tutto l’uomo – e l’uomo è un essere sociale aperto alle relazioni – la fede non può non ispirare ogni ambito e azione, privato o pubblico che sia. Chiedere o pretendere che i cristiani, che hanno responsabilità pubbliche, sospendano la loro coscienza cristiana quando esercitano i loro doveri, è non solo impossibile ma anche ingiusto.3.    Ma è necessario completare questo discorso perché non si concluda erroneamente che il cristiano impegnato in politica fa del confessionalismo e non rispetta il pluralismo culturale e la giusta laicità dello Stato e delle Istituzioni. Quando diciamo che non il credente non può mettersi tra parentesi in nessun ambito di vita, neppure quello pubblico e politico, significa che nessun fedele può compromettere o attenuare la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali (Congregazione per la Dottrina della fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici in politica, n.5). Si parla di “esigenze etiche fondamentali”, cioè di quei valori che non sono di per sé confessionali, poiché “tali esigenze etiche sono radicate nell’essere umano e appartengono alla legge morale naturale. Esse non esigono in chi le difende la professione di fede cristiana, anche se la dottrina della Chiesa le conferma e le tutela sempre e dovunque” (ib.). Si comprende che siamo giunti al fondamento della politica, fondamento che, appunto perché tale, è la norma dell’azione politica stessa: si tratta della persona che, secondo l’affermazione di Antonio Rosmini, è “diritto sussistente” perché l’uomo è trascendenza, cioè ha in sé, scritto nel suo essere, un “dover-essere” che precede ogni legislazione e ogni potere umano; è un dover-essere che, procedendo da ciò che è, è sigillato da Dio Creatore. Ecco perché nessun diritto fondamentale deriva dallo Stato o dall’attività politica – come “pazzamente fu asserito” (A. Rosmini) – ma appartiene all’uomo in quanto tale e non è una concessione di nessuna autorità umana. Per questa ragione il diritto non è una creazione storica e soggettiva, come vorrebbe il volontaristico e nominalistico “ius quia iussum”, ma è una “entità ideale e morale” (A. Rosmini, Filosofia del diritto; ed. a cura di R. Orecchia, Padova, CEDAM 1967, vol. I, pag. 104).  4.    Siamo così giunti alla natura umana, dono e compito non solo di ogni uomo ma anche dello Stato e della politica, che ha nella natura umana il riferimento per giudicare e per legiferare secondo giustizia. La rivendicazione della legge naturale costituisce lo strumento primario per la difesa della libertà e per la difesa della dignità dell’uomo. Il tentativo insistente di negare l’esistenza della natura umana nella sua oggettività e universalità, è mirato a distruggere il fondamento della legge naturale e quindi del diritto naturale che è norma del diritto positivo. Il relativismo, il quale afferma che non esiste una norma morale radicata nella natura stessa dell’essere umano, è smentito   dall’esperienza universale secondo cui, a tutte le latitudini e epoche, gli uomini – all’interno delle rispettive culture - si percepiscono uguali nei dati di fondo. D’altronde, le Carte internazionali come potrebbero dichiarare i diritti universali senza il riferimento universale della natura umana? Tutti affermano di rifiutare uno Stato etico che pretende di produrre i valori anziché riconoscerli, ma negare l’esistenza della natura umana dove può portare se non là dove, a parole, non si vorrebbe andare? Affidare tutto alle procedure delle maggioranze assicura veramente il bene oppure garantisce solo la dialettica  democratica? E negare la sorgente oggettiva di valori fondamentali e universali non porta inevitabilmente ad una politica che si sostituisce sul piano etico? Il Concilio Vaticano II è chiaro in materia: “La comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine fissato da Dio (…) Ne segue parimenti che l’esercizio dell’autorità politica, sia da parte dell’autorità come tale, sia da parte degli organismi che rappresentano lo Stato, deve sempre svolgersi nell’ambito dell’ordine morale per il conseguimento del bene comune, secondo le norme di un ordine giuridico già definito o da definire” (Concilio Vat. II, Gaudium et spes, n. 74).5.    Il Magistero della Chiesa afferma che “ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali” (ib.43), e riconosce  la “libertà dei cittadini cattolici di scegliere, tra le opinioni politiche compatibili con la fede e la legge morale naturale, quella che, secondo il proprio criterio meglio si adegua alle esigenze del bene comune” (Congr. Dottrina della fede, Nota cit. n. 3). Questa giusta e necessaria libertà  non ha niente a che vedere con il relativismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa riferimento nelle diverse opzioni politiche e sociali. La coscienza del cattolico, infatti,  deve essere sempre una coscienza formata sulla base della dottrina cattolica, facendo attenzione rispettosa al Magistero autentico, nutrita di una solida vita spirituale nella comunità cristiana (cfr Concilio Vat. II, Gaudium et spes, n. 43). Fuori da questi riferimenti la  coscienza, che - come ricorda il Beato Neuwman – è l’eco di Dio che indica la via della verità e del bene,  viene invasa e oscurata dalle opinioni diffuse, dai comportamenti ricorrenti o propagati,  si annebbia e diventa opaca. In questa condizione  è difficile ascoltare l’eco di Dio impressa nell’essere umano,  coglierne i richiami  spirituali ed etici. Ciò è conseguenza  del peccato originale e dei peccati personali; è – come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI – il condizionamento del male nella storia e nei comportamenti individuali e collettivi. Questa specie di coltre che oscura poco o tanto la coscienza dell’uomo è stata individuata, a loro modo, anche da pensatori laici come Heidegger, quando parla della vita in autentica del “si” impersonale, che toglie lucidità al giudizio e omologa nell’indistinzione morale comportamenti, persone e istituzioni. La Chiesa, con il suo secolare Magistero ecclesiale, si presenta al mondo come “esperta in umanità”, poiché l’uomo “è la prima fondamentale via della Chiesa” (Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n.36). Incoraggia e sollecita i fedeli laici a partecipare alla vita politica della società, ma nello stesso tempo ribadisce la necessità di una giusta visione dei rapporti tra Comunità ecclesiale e comunità politica. In forza di tale visione afferma la distinzione “tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori”, e precisa che la Chiesa “ in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata a nessun sistema politico” (Concilio Vat. II, Gaudium et spes, 76). Nello stesso tempo fa parte della sua missione “dare il suo giudizio morale anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime” (ib).6.     In breve, vorrei ora richiamare quattro contributi  che la Chiesa offre alla società e all’ordine politico in ordine al perseguimento del bene comune, scopo specifico dell’azione politica. Ovviamente hanno come sorgente, riferimento e garante il Signore Gesù, il Logos eterno di Dio.1)    In primo luogo  la Chiesa, nella luce di Cristo Sapienza del Padre, mantiene vivo nel mondo il senso della verità. Fa parte della sua missione l’educazione alla verità nella  duplice realtà del gusto e della fatica della ricerca, e della verità scoperta. E’ noto che viviamo un tempo nel quale la ricerca è orientata prevalentemente verso il  mondo empirico, considerato l’unica realtà, e  la ragione è usata in modo riduttivo, incompleto, nella prospettiva positivista. Il Santo Padre Benedetto XVI ha da subito esortato ad allargare gli spazi della ragione affinché essa ricerchi anche la verità del senso delle cose, innanzitutto dell’uomo e delle sue inquietudini: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (Caritas in Veritate, 78). La Chiesa sostiene le ragioni della verità spirituale e morale; le sostiene perché di fronte al peso dell’utile, facilmente la verità soccombe. Non che l’utile sia male in sè, solo che, senza la verità, l’utile non solo diventa inutile ma dannoso per l’uomo  e per la società2)    In secondo luogo, la Chiesa svolge una funzione pedagogica rispetto alla coscienza. Come ho detto sopra, essa è voce di Dio creatore che ha impresso nell’uomo la sua impronta, il suo richiamo al bene, alla verità, alla bellezza. Un’impronta e un richiamo che sono indicativi di una direzione, di una strada da percorrere nella libertà di ognuno. Ma la coscienza è oggi particolarmente appesantita, ingombrata da menzogne,  cose inutili,  suggestioni, promesse di vita facile e comoda. La voce di Dio nella coscienza non è debole ma dolce perché rispettosa della libertà; e per questo può essere non percepita, distorta. La Chiesa, con il servizio del Magistero petrino, fa da richiamo, risveglia, illumina ciò che è sopito e oscurato. Risvegliare le coscienze dal sonno spesso indotto da altri, è un servizio all’umanità in ordine al bene comune della città degli uomini.3)    Guardando al suo Signore, la Chiesa salvaguardia il carattere trascendente della persona umana. E’ la sua tensione verso l’Assoluto che rende la persona “qualcuno” e irriducibile ad essere “qualcosa” tra le cose. Proprio perché è qualcuno l’uomo ha una dignità incomparabile, l’unico essere che Dio ha voluto per se stesso: è la creatura più alta e nobile dopo il Creatore, come scrive San Tommaso nella Summa. La Chiesa non cessa di annunciare Gesù, il Signore, consapevole che quando Dio si oscura l’uomo si perde.  Proprio perché porta l’impronta di Dio, egli ha una dimensione sacra e la sua dignità è tale per cui, se egli da una parte vive nella società come una parte in un tutto più grande di cui ha bisogno per essere se stesso, dall’altra egli è un tutto che si rapporta alla comunità e di cui la collettività non può mai disporre come si dispone di qualcosa, di un mezzo.    4)    Infine, la Chiesa è araldo di quell’umanesimo personalista e relazionale di cui gode l’Europa e l’Occidente intero. Gli umanesimi non sono equivalenti: da una visione antropologica immanente e individualista scaturisce una società chiusa e appiattita sull’immediato. E’ possibile vivere solo dentro ad un orizzonte temporale? Se guardiamo oltre i confini europei, scopriamo un’umanità religiosa che si meraviglia della pretesa occidentale di confinare il divino fuori dal proprio orizzonte, riducendolo tutt’al più a questione individuale e privata. Ma senza il fondamento trascendente – chiedeva Papa Benedetto parlando al Parlamento tedesco – dove troveranno àncora i valori etici? Per quale ragione impegnare la vita e fare sacrifici? Come rispondere al quesito insidioso: ha ancora senso essere onesti e dediti? L’uomo viene dal cuore della Trinità Santa e porta l’impronta della comunione trinitaria: l’uomo è relazione con Colui che lo crea, ed è relazione con il mondo e gli altri. È dunque un essere ontologicamente aperto. Ne consegue un tipo di città e di società solidale nel segno del dono e dell’amore. Per questo il mondo ancora vive e può sperare. È l’umanesimo plenario aperto alla Trascendenza, che ha fatto storia e che tutt’ora promuove un grado altissimo di civiltà. Tutti ne godiamo, anche se non  pochi oggi ne rinnegano le radici.  Porto, a conclusione di queste considerazioni, una testimonianza di un convertito al cattolicesimo  Thomas Eliot.“La forza dominante nella creazione di una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione. Vi prego, a questo punto, di non compiere un errore anticipando quel che intendo dire. Questa non è una conversazione religiosa, né mi dispongo a convertire alcuno. Mi limito a constatare un fatto. Non mi interesso molto della comunione dei cristiani credenti ai giorni nostri; parlo della comune tradizione cristiana che ha fatto l’Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato con sé (…) Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche. Non credo che la cultura dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della fede cristiana (…) Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura” (T. Eliot, Appunti per una definizione della cultura in Opere, Classici Bompiani 2003, pagg. 638-639).