Chiesa

Amoris laetitia, la sfida del massimo possibile

LUCIANO MOIA venerdì 20 maggio 2016
il discernimento la parola chiave dell’Amoris laetitia. Scelta impegnativa e severa, perché «il discernimento si rivela persino più esigente della norma, richiede di passare dalla logica legalistica del minimo indispensabile a quella del massimo possibile ». Lo sostiene il gesuita padre Giacomo Costa, che sulla rivista da lui diretta (www.aggiornamentisociali.it) ha avviato una serie di approfondimenti proprio sull’Esortazione postsinodale. Amoris laetitia, è stato detto, disorienta chi pretende di trovare in questo testo un elenco 'dei divieti e dei permessi'. Qual è allora l’approccio corretto per capire ciò che il Papa ci vuole dire? Diversamente dalla Laudato si’, con cui papa Francesco si proponeva 'di entrare in dialogo con tutti', l’Amoris laetitia si rivolge espressamente ai credenti. È scritta per chi ha sperimentato o almeno intuito che, per citare le prime parole della Evangelii gaudium, «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontra-È no con Gesù». Dunque risulta difficilmente comprensibile per quanti la leggono a prescindere dall’esperienza della fede, ma anche per chi vive il Vangelo come una tassa da pagare. Condivide l’autocritica, a proposito di una certa tendenza a presentare – scrive il Papa – «un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito»? Certo, ma condivido soprattutto l’approccio pastorale su cui si basa. Curare, accompagnare, integrare e non abbandonare, escludere o lasciare soli: queste espressioni ritornano continuamente. Esprimono l’attenzione di papa Francesco alla concretezza della vita. Tutte le situazioni familiari trovano spazio nell’Esortazione: famiglie, al plurale, con tutta la loro varietà, talvolta problematica, di forme e situazioni. Il Papa individua il discernimento per dare concretezza alla dinamica di un amore familiare chiamato a una crescita costante. Ma cosa si intende per discernimento? Discernimento è la parola chiave dell’Esortazione. Non si tratta solo di 'buon senso', di 'capacità di giudizio assennato'. In un senso tecnico, proprio della spiritualità, il discernimento è la capacità, o meglio l’arte di esercitare la propria libertà e responsabilità nel prendere decisioni. Presuppone dunque chiarezza in ordine al fine, che per il credente è compiere la volontà di Dio, e incertezza in ordine al mezzo. È lo strumento per dare risposta alla domanda su che cosa fare per vivere la buona notizia del Vangelo. Per il credente la pratica del discernimento si nutre di preghiera e di meditazione, ma con un orientamento pratico: richiede di passare all’azione, 'uscire' dai propri pensieri. La prova della realtà aiuterà a capire la bontà della decisione presa ed eventualmente ad aggiustarla. Il discernimento è radicato anche in un’altra esperienza, senza la quale risulta incomprensibile: sentirsi spinti o attirati in direzioni diverse, che suscitano una varietà di desideri e sentimenti. Provarli – spiega il Papa stesso – «non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso» (n. 145): la sfida del discernimento è muoversi attraverso queste passioni, utilizzandole come strumento per identificare non quello che è sufficientemente buono, ma ciò che è meglio. Non c’è il rischio che l’esercizio del discernimento apra la strada ad una sorta di relativismo etico? La libertà non si esercita in un astratto iperuranio, ma in circostanze concrete, che pongono vincoli e condizionamenti. Certo, «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (n. 304). Le norme mantengono inalterato il loro valore ma, scrive Francesco, «nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (ivi). Discernimento e norma rimandano sempre l’uno all’altra. Anzi, il discernimento si rivela persino più esigente della norma, perché richiede di passare dalla logica legalistica del minimo indispensabile a quella del massimo possibile. Ritiene che la formazione delle coscienze («siamo chiamati a formarle non a pretendere di sostituirle», n.37) potrà aprire la strada a percorsi di crescita delle nostre famiglie tali da renderle davvero 'soggetti' e non soltanto 'oggetti' di pastorale familiare? Non posso che augurarmelo, anche perché, nella prospettiva che abbiamo delineato, il ruolo delle coscienze non si limita al riconoscimento di essere nell’errore o nel peccato, ma anche a «scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (n. 303). Perché questo avvenga, però, è fondamentale la formazione in questa prospettiva dei sacerdoti e di coloro che accompagnano fidanzati e famiglie. © RIPRODUZIONE RISERVATA Padre Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti sociali