Chiesa

L'analisi. La riduzione delle diocesi in Italia muove i primi passi

Gianni Cardinale e Giacomo Gambassi lunedì 20 maggio 2019

Papa Francesco l’ha definita un’«esigenza pastorale attuale» davanti ai vescovi italiani riuniti in assemblea a maggio dello scorso anno. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha sollecitato sempre un anno fa il «cambiamento» con «misure intelligenti» che non vanno ridotte a una «matita per cancellare». Il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, il vescovo Stefano Russo, lo ha etichettato come un «tema importante» lo scorso aprile al termine del Consiglio permanente. La riduzione delle 226 diocesi italiane (225 - compresa quella di Ostia storicamente unita a Roma - più l’Ordinariato militare) non è solo un argomento di studio o di discussione. È cominciata. Senza clamori e senza quelle tensioni raccontate da papa Francesco (che nel suo intervento all’ultima Assemblea generale della Cei aveva detto: «L’anno scorso stavamo per accorparne una, ma sono venuti quelli di là e dicevano: “È piccolina la diocesi... Padre, perché fa questo? L’università è andata via; hanno chiuso una scuola; adesso non c’è il sindaco, c’è un delegato; e adesso anche voi…”. E uno sente questo dolore e dice: “Che rimanga il vescovo, perché soffrono”»). Più che varare una piattaforma programmatica, che sa molto di strategia politica ma ha ben poco a che fare con uno spirito ecclesiale, si è iniziato a intervenire partendo da rinunce e nomine dei vescovi. Con un percorso condiviso che da una parte ha il placetdel Papa, dall’altra conta sulla collaborazione della Cei, e dall’altra ancora vede in azione la nunziatura apostolica in Italia e la Congregazione per i vescovi. Ne sono la prova alcune recenti decisioni sulle successioni riguardanti le sedi vescovili che mostrano come l’auspicato riassetto della geografia ecclesiale italiana muova i primi passi.


Nel 2017, anno con numerose nomine episcopali, sono stati eletti anche nuovi vescovi per le diocesi con meno di centomila fedeli: Trivento e Sulmona-Valva, Melfi-Rapolla-Venosa e Teano-Calvi, Fidenza e Gubbio, Pinerolo e Casale Monferrato. Anche nel 2018, anno con poche provviste, è stato scelto l’ordinario di una Chiesa che non raggiunge le 60mila anime: Camerino-San Severino Marche nel mese di luglio. Il 2019 invece si è aperto con una serie di provvedimenti per le “piccole” diocesi che segnano una svolta. A febbraio Palestrina è stata unita a Tivoli in persona episcopi (come avviene da anni con Cuneo e Fossano). Ad aprile il segretario generale della Cei ha lasciato Fabriano-Matelica senza che venisse nominato un successore, mentre ad Alife-Caiazzo sono state accettate le dimissioni per raggiunti limiti di età dell’ordinario con la nomina del vicino (ma non confinante) vescovo di Sessa Aurunca come amministratore apostolico. A maggio il vescovo di Ales-Terralba è stato promosso nella sua sede metropolitana di Oristano.


La via privilegiata che è stata imboccata appare quella dell’accorpamento, come del resto aveva suggerito anche papa Bergoglio. Le oltre duecento Chiese particolari presenti dalle Alpi alla Sicilia sono «tante», ha detto Bassetti. Forse troppe se si prende come riferimento il resto del mondo: ad esempio in Germania sono 27 (per 25 milioni di fedeli), in Francia un centinaio (per 47 milioni di battezzati), in Spagna 70 (per 42 milioni di cattolici). Negli Stati Uniti, che hanno un territorio trenta volte più esteso della Penisola dove i cattolici sono più di 70 milioni, sono 197. Certo, nel Belpaese il numero delle sedi titolari è figlio della storia, delle sue profonde radici cristiane e soprattutto del legame peculiare e irripetibile che l’Italia ha con la Sede Apostolica. Ma la cifra sembra oggi anacronistica.


Nel 2016 la Congregazione per i vescovi aveva chiesto alle Conferenze episcopali regionali di inviare un parere sul progetto di riordino delle diocesi alla Segreteria generale della Cei. Un testo in cui i pastori di ciascuna regione ecclesiastica dovevano presentare volto e prospettive delle Chiese locali e proporre quali unificazioni o soppressioni sarebbero state auspicabili. Una consultazione sinodale dagli esiti variegati che ha portato a favorire adesso la strada della razionalizzazione attraverso le nomine (o meglio le “non nomine”) episcopali. Il cardinale Bassetti ha assicurato che il tutto avverrà nel «rispetto» della «storia» ecclesiale italiana e della «sensibilità della gente». Il che comporterà «attenzione nei confronti delle persone e delle comunità», ha chiarito il vescovo Russo. Comunque non sarà un percorso «facile», ha ammesso lo stesso Francesco che aveva sollevato il tema nel primo incontro che ebbe con i vescovi italiani il 23 maggio 2013, due mesi dopo la sua elezione, quando accennò al «lavoro di ridurre il numero delle diocesi tanto pesanti».


L’ultima riorganizzazione risale al 1986 quando il computo totale era stato “tagliato” di quasi cento unità con l’accorpamento fra loro di diverse diocesi di dimensioni limitate. Un’operazione testimoniata dai nomi composti di numerose attuali Chiese particolari che nella loro dicitura racchiudono fino a cinque ex sedi titolari. Prima della metà degli anni Ottanta le diocesi erano 325. In realtà l’ipotesi di riforma era già stata avanzata con forza alla fine degli anni Venti del secolo scorso ed era stata inserita nel Concordato del 1929 in cui si stabiliva che la «riduzione» delle Chiese locali «sarà attuata via via che le diocesi medesime si renderanno vacanti». L’intento, caldeggiato da Mussolini, era che «i capoluoghi» delle diocesi corrispondessero a «quelli delle province», si legge ancora nel Concordato, con l’intento di far coincidere l’Italia civica con l’Italia sacra per facilitare – si disse – il controllo ai prefetti. Tuttavia non se ne fece nulla. Paolo VI nel 1964 riprese la materia parlando il 14 aprile all’Assemblea dei vescovi di «eccessivo numero delle diocesi». Dopo l’intervento di Montini la Cei costituì una commissione detta “dei Quaranta” che elaborò un progetto consegnato nel 1968 alla Congregazione per i vescovi. Soltanto dopo quasi venti anni si giunse a dare concretezza all’indicazione di Paolo VI avallata dal Papa regnante, Giovanni Paolo II. Ma quante dovrebbero essere le diocesi italiane? L’allora segretario della Congregazione per i vescovi, l’arcivescovo (e futuro cardinale) Lucas Moreira Neves, scrisse sull’Osservatore Romano presentando la riforma parziale che 119 era il numero «ritenuto molto vicino all’ideale». Non è detto che la cifra sia ancora valida.