Chiesa

Cristiani perseguitati. Un Paese su 5 non garantisce la libertà religiosa

Luca Liverani - Ilaria Solaini martedì 15 novembre 2016

La statua di Cristo Re a Rio de Janeiro tinto di rosso per ricordare i martiri cristiani nel mondo.

Un Paese su 5 nel mondo non garantisce la libertà religiosa, in alcuni si registrano episodi di vera e propria persecuzione, e la situazione è peggiorata nell'ultimo anno. È quanto emerge dal Rapporto 2016 sulla libertà religiosa della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), presentato dal presidente di Acs Alfredo Mantovano, dal presidente internazionale di Acs cardinale Mauro Piacenza, dal giudice della Consulta Giuliano Amato. A moderare la conferenza il direttore di Avvenire Marco Tarquinio


Dei 196 Paesi analizzati, «38 mostrano indiscutibili prove di significative violazioni alla libertà religiosa. All'interno di questo gruppo, 23 nazioni sono state poste nella categoria persecuzione e le rimanenti 15 in quella di discriminazione», sottolinea la fondazione pontificia. Rispetto all'ultima edizione del Rapporto «il rispetto della libertà religiosa è chiaramente peggiorato in 14 Paesi». Il diffondersi del fondamentalismo, soprattutto di stampo islamico, causa in alcuni Paesi anche ondate migratorie senza precedenti, evidenzia ancora Acs. Tra gli Stati dove la libertà religiosa è maggiormente compromessa figurano Bangladesh, Eritrea, Kenya, Pakistan,Sudan, Yemen per citarne alcuni. E ci sono paesi dove la repressione della libertà religiosa «non può peggiorare per il livello drammatico già raggiunto», come ha detto il direttore di Acs-Italia Alessandro Monteduro: Arabia Saudita, Irak, Siria, Afghanistan, Somalia, nord della Nigeria e Corea del Nord.

Pubblicato in 7 lingue e giunto alla 13esima edizione, il dossier «è anche uno strumento per la Fondazione Acs - ha detto Alfredo Mantovano - che negli ultimi anni ha intensificato gli interventi materiali per i bisogni delle popolazioni perseguitate».




Il Rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre confuta la tesi secondo la quale i governi sono il principale responsabile delle persecuzioni religiose. «Attori non statali, quali organizzazioni fondamentaliste o militanti, sono responsabili delle persecuzioni in 12 dei 23 Paesi in cui si registrano le violazioni più gravi», si rileva nel dossier che pone l'accento sull'emergere di «un nuovo fenomeno di violenze a sfondo religioso, che può essere descritto come iper-estremismo islamico, ovvero un processo di accresciuta radicalizzazione la cui espressione violenta non ha precedenti. Sin dalla metà del 2014, violenti attacchi islamisti hanno avuto luogo in una nazione su cinque nel mondo».

Marco Tarquinio ha sottolineato le «responsabilità che gravano su molti cittadini del mondo, perché numerose persecuzioni non sono solo azioni di vertici politici e di governo: ci sono movimenti dal basso nelle società che si intrecciano con le operazioni di potere». Da operatore della comunicazione ha lamentato come «le tragedie che si ripetono con ciclicità nella vita quotidiana del mondo, non vengono considerate notizia solo perché non finiscono».


Per gli analisti della fondazione pontificia inoltre «l'estremismo islamico e l'iper-estremismo, osservati in Paesi quali Afghanistan, Somalia e Siria, rappresentano un fattore chiave del massiccio aumento del numero di rifugiati nel mondo che nel 2015, secondo dati forniti dalle Nazioni Unite, sono aumentati di circa 5,8 milioni giungendo alla quota record di 65,3 milioni».

«La libertà religiosa è la madre di tutte le altre libertà umane - ha detto il cardinale Mauro Piacenza - ed è frutto del cristianesimo, che ha progressivamente penetrato la cultura avviando il dialogo tra fede e religione. Di certo un potere che limita la libertà religiosa finirà per limitare tutte le libertà». Il presidente di Acs ha anche sottolineato un pericolo insidioso: oggi nelle democrazie liberali «nessuno osa sindacare le personali convinzioni religiose, purché esse non rivendichino riconoscimenti pubblici e capacità di incidere sull'ordinamento della società».

Anche Giuliano Amato, già presidente del consiglio e ministro dell'Interno, ha messo in guardia sui rischi dei ritorni di un "ateismo di stato" novecentesco, mascherato da "laicità". Il sentimento religioso negato diventa un fattore identitario"contro" che prima o poi riemerge con modalità intolleranti». E dunque «si possono fare guai anche con la laicite francese. Alla lunga può diventare fonte di integralismo. C'è da combattere il terrorismo e vogliamo costringere una ragazza che per suoi motivi vuol andare in spiaggia coperta col burkini a mettersi in bikini?». Da qui l'invito a pensare «se sia davvero "normale" una società che non onora il padre e la madre, che dedica il giorno di festa a qualsiasi attività tranne che alla spiritualità, in cui l'individualismo egoista è l'unico metro. Una società sta esercitando un ruolo repulsivo verso chi ha una visione diversa della vita e permette in altre società di dire che l'Occidente è il male».

Monsignor Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siriano siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, ha raccontato l'esperienza drammatica di una diocesi che confina a Sud, Est e Ovet con il Califfato. «L'islam non conosce libertà di coscienza e di culto e i cristiani sono tollerati solo quando pagano. E questo non avviene solo nel Daesh. L'islam quando è debole accetta tutto, quando è forte impone la Sharia che impone il pagamento di un tributo. L'islam siriano - ha affermato - è geneticamente frutto di successive invasioni: ittiti, egiziani, arabi, persiani, diverso dall'islam duro e puro degli wahabiti dell'Araba saudita, del Daesh e di Al-Nusrah. Ora nella mia diocesi il problema non è il califfato ma i curdi».