Chiesa

Intervista. «L’accoglienza per noi separati? Ascoltando le nostre sofferenze»

Luciano Moia venerdì 3 ottobre 2014
In questi giorni sono stati al centro del dibattito mediatico come non mai. In vista del Sinodo tutti si sono sentiti autorizzati a parlare di loro. Ad avanzare punti di vista, a suggerire soluzioni, a tracciare analisi più o meno sensate. Quasi nessuno però ha ritenuto il caso di offrire loro direttamente la parola, di ascoltare il loro punto di vista, le loro delusioni, la loro sofferenza. Eppure, separati, divorziati, risposati, ne avrebbero tante da raccontare. C’è tutto un mondo inesplorato di lacerazioni, di delusioni, di attese mancate che accompagna il rapporto mai agevole tra la Chiesa e il mondo dei separati e dei divorziati risposati. Ora, l’occasione del Sinodo offre l’opportunità di completare la svolta, di salutare davvero un nuovo inizio in cui sia possibile concretizzare i tanti spunti incoraggianti che il magistero del Papa e dei vescovi ha disseminato nel corso degli ultimi trent’anni. Perché questo è lo snodo determinante. Dalla Familiaris consortio di Giovanni Paolo II (1981) all’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella giornata conclusiva dell’Incontro mondiale delle famiglie a Milano (2012) fino alle tante aperture di Francesco, le parole incoraggianti, le riflessioni segnate dalla misericordia e da un desiderio autentico di inclusione, sono state numerose e originali. «Eppure, eppure… c’è qualcosa che ancora non va». Ernesto Emanuele, presidente dell’Associazione famiglie separate cristiane. Ingegnere milanese, da tanti anni si batte per promuovere il ruolo dei separati nella Chiesa.Cosa non va?Ho studiato attentamente documenti e interventi ecclesiali di questi ultimi 25 anni. Tutte riflessioni eccellenti. Ma quasi ovunque noi siano "oggetti" e non "soggetti" della pastorale.In concreto cosa significa?Significa per esempio che nei tanti gruppi di preghiera sorti nelle diocesi, il punto di riferimento scelto dal vescovo è troppo spesso una coppia "normale". Noi siamo sempre in secondo piano.E questo che problema crea?Una coppia regolarmente sposata, anche la migliore, quella con sensibilità umana e sapienza teologica, non può capire i nostri problemi non avendoli mai vissuti. E i nostri problemi sono infiniti, a cominciare da una sofferenza che spesso schiaccia ogni volontà.Cosa dovrebbe cambiare nelle comunità per concretizzare davvero quegli auspici di misericordia che il Papa non si stanca di ricordare?Tante cose. Ma potremmo accontentarci delle tre A: e cioè ascolto, accoglienza e accompagnamento. Ma l’ascolto è la premessa di tutti. Troppo spesso nessuno si dispone all’ascolto dei nostri problemi.Voi proponete varie modalità per vivere l’impegno cristiano nella separazione, a partire dal più impegnativo che è la fedeltà al sacramento del matrimonio nonostante la rottura della coppia. Non è un po’ troppo?Certo, questa proposta non è per tutti, ma va comunque fatta a tutti. Lo esige la coerenza del Vangelo. Chi poi non ce la fa, non è per questo escluso o bollato di eresia.Anche perché tra chi non ce la fa ci sono tanti separati divorziati che oggi attendono dal Sinodo novità importanti.In questi decenni ho visto il dolore sincero, profondo e assoluto di tanti fratelli che non possono accostarsi all’Eucarestia. Noi non vogliamo suggerire soluzioni. Ma questi percorsi penitenziali di cui tanto si parla, molti divorziati risposati stanno già vivendoli sulla propria pelle da anni. È giusto finalmente pensare a loro.Come valutate la possibilità di semplificare le cause di nullità?La nullità riguarda una percentuale ridottissima di sposi. Mi chiedo se quando ci sono dei figli sia possibile parlare di nullità. Ho conosciuto figli che, di fronte a una conflittualità insopportabile dei genitori, ne hanno auspicato la separazione. Ma che poi, di fronte all’ipotesi di dichiarare nullo quel matrimonio, hanno opposto la più fiera resistenza. Alcuni ne erano sinceramente inorriditi. Credo che, quando si parla di separazione e di divorzio, si pensi troppo poco ai figli.