Venticinque dicembre 1961: «Mia santa Messa di mezzanotte per il Corpo
diplomatico nella sala Clementina...
Immediatamente dopo celebrai la seconda e terza Messa nella mia cappella
privata... Alle ore 9 mia firma solenne della Bolla di indizione del
Concilio, sempre nella Sala Clementina. Era presente anche il cardinale
Copello gran cancelliere di Santa Romana Chiesa. Mi servii per la firma
di una penna d’oro regalatami dall’Osservatore Romano per l’occasione.
Alle 12.30 nella stessa Sala Clementina mio breve discorso con
riferimento alla indizione del Concilio e alla benedizione di Natale che
di là diedi in tiara,
Urbi et orbi». Così, cinquant’anni fa,
Giovanni XXIII sul suo diario descriveva uno dei passi formali, ma
decisivi, verso la celebrazione dell’evento conciliare già nel pieno
della sua fase preparatoria: la firma della bolla
Humanae salutis.
Era il suo regalo per il Natale 1961 – per lui il penultimo – e la sua
prefazione al Vaticano II. Un testo di mezzo secolo fa, del quale, a ben
vedere, la premessa era stata enunciata dal Pontefice in un’allocuzione
all’Ordine francescano il 16 aprile 1959 quando aveva manifestato
l’inderogabile necessità di «precisare e distinguere fra ciò che è
principio sacro e Vangelo eterno, e ciò che è mutevolezza dei tempi». Un
testo, quello dell’
Humanae salutis, da non dimenticare. Vi si
legge che il Concilio avrebbe cercato di «contribuire più efficacemente
alla soluzione dei problemi dell’età moderna» affrontando dunque la già
grave crisi della società. E tuttavia un testo sereno.
Venato di ottimismo. Con il Pontefice che affermava «facendo nostra la
raccomandazione di saper distinguere "i segni dei tempi" ci sembra di
scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene
sperare sulle sorti della Chiesa e della umanità...». Eccola
l’espressione chiave: «segni dei tempi», forgiata dal Vangelo stesso
come invito alla fede e alla vigilanza (Matteo 16,4; Luca 12,54-56).
Giovanni XXIII, nella sua profetica lettura della storia della Chiesa
degli ultimi anni, ne riproponeva con forza l’originario significato.
Usata dallo stesso Angelo Giuseppe Roncalli già all’alba del secolo e
patrimonio del suo lessico fu poi cruciale in quegli anni per la
discussione teologica cattolica, diventò emblematica del suo magistero, e
venne ripresa dal Concilio in alcuni documenti finali. A essere
spazzata via era l’antica dicotomia che voleva la Chiesa santa e il
mondo nel peccato. E invece: «Pur non avendo finalità direttamente
terrestri, essa tuttavia non può disinteressarsi nel suo cammino dei
problemi e dei travagli di quaggiù. Sa quanto giovino al bene dell’anima
quei mezzi che sono atti a rendere più umana la vita ai singoli uomini
che devono essere salvati; sa che, vivificando l’ordine temporale, che
con la luce di Cristo rivela pure gli uomini a se stessi, li conduce
cioè a scoprire in se stessi il proprio essere, la propria dignità, il
proprio fine».
Insomma, a stagliarsi era già l’attesa nuova fase per la vita della
Chiesa. Punto ancora taciuto nel documento era la data precisa
dell’avvio del Concilio, genericamente convocato – si poteva leggere
«per il prossimo anno 1962». Tuttavia la lacuna non angosciava il Papa
ottantenne che aveva appena ricevuto gli auguri di compleanno dal
Cremlino (e che aveva risposto a Kruscev associando nelle sue
espressioni cordiali il popolo russo). Papa Roncalli vedeva il piccolo
seme lanciato tre anni prima trasformato in una pianta. Per il momento
si accontentava di procedere «a vista». Poco tempo prima, parlando con
Jean Guitton e indicandogli la cupola dell’osservatorio di Castel
Gandolfo, aveva detto al filosofo francese: «Questi sapienti astronomi,
per guidare gli uomini, si servono di strumenti molto complicati. Io
invece non li conosco. Io mi accontento, come Abramo, di avanzare nella
notte, passo dopo l’altro, alla luce delle stelle». Una di queste
sarebbe diventata la stella polare che da mezzo secolo, nelle parole e
nei fatti, guida i passi dei suoi successori. La stella del Concilio
Ecumenico Vaticano II.
CAPOVILLA: IN QUEL TESTO C'ERA GIÀ TUTTO
«Di fronte ai mutamenti culturali, sociali, tecnologici, economici,
sociali, Papa Giovanni XXIII desiderava tornare a interrogarsi e
confrontarsi sul ruolo della Chiesa nella società e nella storia,
chiamando i vescovi di tutto il mondo a riflettere su modi nuovi per
annunciare il Vangelo di sempre e affiancare con la forza della fede e
del dialogo il cammino dell’umanità nella prospettiva della costruzione
del Regno di Dio». Questa – ricorda l’arcivescovo Loris Francesco
Capovilla, già segretario di papa Roncalli – la consapevolezza che
appare in filigrana, già nell’
Humanae salutis,
dove «le finalità del Concilio sono già specificate, i motivi di
fiducia indicati, il programma di lavoro annunciato non senza invito
alla preghiera », e dove si riconoscono a questo strumento presente
nella storia della Chiesa le potenzialità «per contribuire a
incrementare la grazia nei fedeli e a far progredire il cristianesimo».
Capovilla, il don Loris che appare nei vecchi filmati in bianco e nero
con Giovanni XXIII e oggi ha novantasei anni, ricorda che era un giorno
piovoso quello del Natale del 1961: «Anche per questo la firma, per
quanto solenne, avvenne nella Clementina e non nella Basilica di San
Pietro o pubblicamente». Dettagli di cronaca a parte, Capovilla afferma
con fermezza: «È li che bisogna tornare a leggere. Sono parole chiare.
C’è tutto, formulato con tale trasparenza che non giustifica
l’allarmismo di alcuni, né la chiusura di altri: fortificare la fede,
rimirare la propria stupenda unità, dare maggiore efficienza alle
strutture». In una parola, riprendendo il testo firmato da papa
Roncalli: «Immettere l’energia vivificante del Vangelo nelle vene
della comunità umana», continua il testimone autorevole di quel
pontificato e del Vaticano II. Che non nasconde le sue attese per
l’imminente anniversario dell’apertura del Concilio (11 ottobre 1962 -
11ottobre 2012), in coincidenza con l’apertura dell’«Anno della Fede»
voluto da Benedetto XVI: un’occasione da condividere, dice Capovilla,
sempre convinto che «tantum aurora est», che «siamo solo all’aurora».
Dell’evangelizzazione.