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Caporalato. Il vedovo della bracciante: «Vorrei pregare col Papa per i nuovi schiavi»

Nicola Lavacca venerdì 14 aprile 2017

Stefano Arcuri e la moglie Paola Clemente.

«Il dolore che ho dentro è profondo. La mia speranza è sapere e capire quali sono state le cause della morte di mia moglie Paola mentre lavorava nei campi sotto il sole cocente. È una questione di giustizia, per evitare che in futuro si possano verificare tragedie simili». C’è molta determinazione ed emozione nelle parole di Stefano Arcuri il marito di Paola Clemente, la 49enne bracciante di San Giorgio Jonico che morì di fatica la mattina del 13 luglio del 2015 nelle campagne di Andria mentre era dedita all’acinellatura dell’uva. Fervente cattolico, come i suoi figli e come lo era Paola, frequentano la parrocchia di Maria Santissima Immacolata. «Prego molto – rivela – la fede mi da forza. Spero che il suo sacrificio faccia riflettere. E mi auguro che mai più ci siano donne e uomini costretti a sgobbare nelle condizioni in cui si è trovata lei. Come recita il capitolo 24 del Deuteronomio, 'non defrauderai il bracciante povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno degli stranieri che stanno nel tuo paese, entro le tue porte e gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a questo va il suo desiderio'. Papa Francesco è intervenuto spesso per difendere chi viene sfruttato, subisce ricatti e umiliazioni mentre lavora nei campi. Vorrei poterlo incontrare per raccontargli questa mia esperienza e pregare insieme a lui per ricordare la mia Paola».

Secondo l’autopsia effettuata sul cadavere della donna, riesumato un mese dopo la morte in seguito alla denuncia della famiglia e all’esposto del segretario regionale della Flai Cgil Giuseppe De Leonardis, a provocarne il decesso fu una 'sindrome coronarica acuta in paziente affetta da ipertensione (in trattamento) e da cardiopatia'. È l’aspetto da approfondire e chiarire secondo Stefano Arcuri: «Mia moglie aveva la pressione alta e prendeva le pastiglie per tenerla sotto controllo. Non so se avesse problemi anche al cuore o se siano subentrati successivamente per le pesanti condizioni di lavoro cui era sottoposta. Se è stata la fatica a causare l’infarto, il discorso cambia. Va considerata anche la mancata prevenzione e l’assistenza improvvisata che solitamente coabitano durante le diverse attività agricole di raccolta». Quella mattina, in una giornata canicolare, Paola si sentì male un paio d’ore dopo aver cominciato la sua opera sotto il tendone dell’uva.

«Una caposquadra – ricorda Arcuri – che reclutava le braccianti per conto dell’agenzia interinale che aveva assunto Paola pare le abbia detto: 'cos’è oggi, non ti va di lavorare?'. Mia moglie non è stata soccorsa in tempo, nonostante l’arrivo sul posto di due ambulanze. Come ha scritto nella sua relazione la Commissione parlamentare d’inchiesta sui morti del lavoro, c’è stata una evidente assenza di misura di primo soccorso, di collegamento con il pronto intervento e di tutte le procedure di protezione da attivare in caso di grave pericolo di vita. Ed è inaccettabile che i caporali o gli addetti abbiano prima chiamato l’agenzia e i loro legali, anziché avvisare subito me e la mia famiglia che Paola era morta». Resta il dubbio inquietante: la signora Clemente poteva essere salvata? Una risposta potrebbe darla la consulenza affidata ad un docente di Medicina del lavoro per accertare se vi sia stato un nesso di causalità tra decesso e superlavoro. Sembra inoltre che l’agenzia interinale che aveva assunto la bracciante di San Giorgio Jonico non avesse provveduto a effettuare la regolare visita medica.

Anche Stefano Arcuri lavora spesso in campagna, ma l’azienda che lo ha ingaggiato rispetta i contratti. Sua moglie, invece, impegnata nella dura attività agricola dall’86, era sottopagata e sfruttata come altre 600 braccianti, come è poi emerso dall’inchiesta della Procura di Trani che ha portato all’arresto di 6 persone riconducibili a un’agenzia interinale di Noicattaro che aveva creato una nuova forma di caporalato. Dai documenti sequestrati è stata accertata una differenza del 30% tra la cifra inserita in busta paga e quella realmente percepita dalle operaie, mentre in molti casi veniva dichiarato un numero di giornate inferiori al totale delle ore lavorate. «Paola guadagnava 27 euro al giorno per 8 ore che diventavano 10 quando bisognava caricare il raccolto sui tir – dichiara Stefano –. Sapevamo che la paga era quella. Sospettavo che non fosse quella stabilita dal contratto, ma quei soldi ci servivano per vivere e mantenere i nostri tre figli. I braccianti sono l’anello debole del settore agricolo; spesso e subiscono trattamenti disumani. I caporali, i mediatori senza scrupoli approfittano delle situazioni di disagio e indigenza di molte famiglie». Paola come tante altre donne, mogli di disoccupati ad esempio, si ammazzava di fatica con la sua generosità e il suo spirito di dedizione per portare il pane a casa.

«Partiva alle 3.30 del mattino – prosegue Arcuri – per raggiungere i campi dopo un paio d’ore di viaggio in pullman e rientrava verso le 15. Spesso era così stanca che andava direttamente a letto. Quando era impegnata sotto i tendoni, alla pari di altre donne, aveva brividi di freddo perché passava da una temperatura di oltre 45 gradi durante l’acinellatura dell’uva a 10-15 gradi in meno nelle rare volte in cui era possibile uscire all’aperto. Il caporalato è una forma di schiavitù. C’è una mancanza di umanità che sconcerta. Vorrei che tutto si svolgesse nell’alveo dei principi della convivenza civile, che le condizioni di lavoro fossero più vivibili, rispettando regole e contratti. La legge contro il caporalato ha consentito di fare un deciso passo avanti. Ma, come ho detto al ministro Martina e alla Presidente della Camera Boldrini è indispensabile tenere alta la guardia, affermare con forza la cultura della legalità e intensificare i controlli».