Attualità

La storia. Laureato e bracciante: "siamo disperati e sfruttati"

Paolo Lambruschi mercoledì 27 agosto 2014
Il Professore dorme da qualche settimana in una masseria abbandonata e pericolante in mezzo ai campi a Nardò, capitale del Salento rurale con le sue immense tenute. Convidono il degrado dell’“hotel” di Arene-Serrazze una ventina di braccianti sub sahariani dell’ovest e alcuni tunisini seduti al pianterreno a giocare a carte in un pomeriggio senza lavoro di nuvole e pioggia, sfidando i rischi di crollo. Ha più di 50 anni, è arrivato in Italia dalla Tunisia alla fine degli anni 80. Ha preso una laurea alla Sorbona, insegnava filosofia ed è fuggito per problemi con il governo per le sue idee politiche. Da allora non è più tornato: «Perché l’Italia era la mia America». Parla al passato. In un quarto di secolo ha avuto il permesso di soggiorno con la prima sanatoria, ha lavorato in agricoltura al sud. Poi è stato per 17 anni nelle Marche, assunto da una ditta di elettrodomestici a Fabriano. Un buon posto da caporeparto, una casa in affitto, un certo prestigio, ma la crisi ha cancellato tutto, compreso l’orgoglio di mandare i soldi alla madre vedova e ai tre fratelli che ha fatto studiare. Ora gli servono contratti e contributi per arrivare alla pensione. Una situazione comune a tanti immigrati che si adattano a fare i braccianti. «Ho deciso di tornare nelle campagne come 25 anni fa – dice in un italiano quasi perfetto – ma c’è meno legalità. Siamo in tanti, possono sfruttarci». Tutto attorno all’“hotel” senza nome cumuli di immondizia e resti di fuochi, segni della lotta per la sopravivenza quotidiana. «Niente foto per favore – mi chiede un maliano sulla quarantina – i nostri figli o i nostri parenti a casa potrebbero vedere come viviamo». Stessa richiesta dagli africani diffidenti che vigilano una cucina abusiva piazzata sotto gli ulivi. Ce ne sono molti di ruderi dove si vive come topi, dove si adatta a stare chi non ha trovato posto nel centro di accoglienza comunale allestito ad Arene il 12 luglio con 14 tende da cinque posti. Lo visitiamo con operatori e operatrici del Progetto Presidio della Caritas italiana, finanziato dalla Cei in 10 diocesi italiane per contrastare l’illegalità e lo sfruttamento dei braccianti stranieri. Un vigile sta chiuso dentro una Punto per sorvegliare, la struttura è ordinata e pulita. Nel campo entrano anche i lavoratori sparsi in casolari abbandonati per usare docce e servizi igienici. A due chilometri circa un’altra masseria ospita una casa chiusa. Tempo fa la Caritas è riuscita a contattare alcune donne africane prostituite all’interno. Ma da allora una sentinella romena su un’auto parcheggiata all’esterno impedisce l’ingresso. Due anni dopo il clamoroso sciopero dei migranti dell’“hotel Boncuri”, il tugurio dove vivevano, e le denunce contro caporali e mezzadri per violazione delle nuove leggi contro il caporalato, poco è cambiato. Nonostante la vigilanza di associazioni, istituzioni e sindacati è difficile piegare l’antico sistema di oppressione e sfruttamento nei campi basato sull’illegalità. Anche se è diventato più raffinato, la seconda ricerca della Flai Cgil su Agromafie  e caporalato, segnala a Nardò, anguriera d’Italia, il permanere di una situazione di grave sfruttamento. E parla di caporalato legato alla mafia leccese, utilizzato sistematicamente da importanti imprenditori per chiudere le raccolte in breve tempo, dimezzare i salari sfruttando i disperati e raddoppiare i volumi d’affari. Sui fatti sta indagando dal 2011 la procura distrettuale antimafia di Lecce che ha portato a termine l’operazione Saber, dal nome del caporale arrestato.  Presidio intanto conferma che la stagione 2014 delle angurie appena conclusa è stata breve e poco redditizia. Sono arrivati meno migranti, stranamente sono stati chiamati i raccoglitori tunisini dalla Sicilia, regolari ed esperti in un lavoro faticoso che può fruttare 2.000 euro in nero ai più bravi delle squadre. Solo ad agosto è toccato ai subsahariani, soprattutto francofoni, per la breve stagione dei pomodori, ma sono pochi. E qui guadagnano, come nel resto della Puglia, 3.5 euro a cassone al massimo, 25 euro al giorno. Tra luglio e agosto sono gravitate qui 200 persone circa, secondo la Caritas diocesana, la metà degli anni scorsi. Chiedo cosa sia successo al Professore. «C’è poco lavoro e i caporali temono i controlli dopo le denunce. Ma qui a Nardò vige sempre un sistema “mafioso” – risponde – controllato dai caporali. Devi pagare 300 euro per entrare in una squadra. A molti li chiedono il secondo giorno, dopo che gli hanno preso i documenti. Se sei in regola, li usano durante i controlli per chi non è regolare. Chi sono? Tunisini, marocchini, romeni, italiani. Mi sono rifiutato, così finora ho lavorato tre giorni. Devo mettere via i soldi per comperare un’auto usata e cercare lavoro al nord». Il Professore mangia ogni sera alla mensa della Caritas di Nardò-Gallipoli aperta al seminario. La tengono aperta operatori e 200 volontari delle parrocchie che a turno vanno a prendere i braccianti alle 19 con una navetta. «È un grosso aiuto perché per mangiare nelle cucine abusive dei campi – spiega Gregorio Manieri, psicologo e operatore della Caritas diocesana – come per coprire le grandi distanze i migranti devono indebitarsi». Al Presidio possono sostenere colloqui per venire orientati o frequentare corsi di italiano come fanno i più giovani, spesso giunti in Italia come minori non accompagnati e poi fuggiti dalle comunità.