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Tunisia. «Vi illudete, pescheremo altri morti». E ora anche il Sudan vuole i fondi Ue

Nello Scavo, inviato a Zarzis (Tunisia) sabato 9 settembre 2017

A sinistra, alcuni pescatori tunisini di Zarsis, che ricompongono i resti dei migranti annegati e respingono i razzisti

Chemssedine è un giovane pescatore. Osserva la legge di Allah e quella del mare. Non ci ha pensato due volte a far sapere a quelli della C-Star, la nave anti-immigrati dell’estrema destra europea, che avvicinarsi alla costa tunisina non era una buona idea. «Non siete i benvenuti», disse via radio poco dopo aver ricomposto un cadavere ancora. La corrente che risale il Golfo della Sirte ha fatto della cittadina tunisina l’ultimo approdo dei sogni affogati.

A mani nude, coi calzoni rivoltati fino alle caviglie, Chemssedine Marzouk sorveglia le onde, casomai la battigia restituisca qualche disgraziato. L’ultimo corpo lo hanno issato a riva una settimana fa. Ma nel cimitero di Zarzis non c’è più posto. Soprattutto Chemssedine, nel frattempo diventato volontario della Mezza Luna Rossa, non ha più soldi per dare una degna sepoltura ai migranti inghiottiti dai flutti. Perciò è stata avviata una raccolta fondi anche su internet. Chemssedine non è sicuro che il piano italiano ed europeo funzionerà. Perché «la fame e il piombo», come li chiama lui, sono una buona ragione per emigrare. E a sud del Sahara la fame e il piombo sono quelli di sempre.

Prima di raggiungere Zarzis, bisogna lasciarsi definitivamente alle spalle il confine libico. Karim, il tunisino con un passato da meccanico irregolare in un autosoccorso ligure, aveva ragione. È lui a scortarci a bordo dell’autocisterna con cui contrabbanda nafta. «So io come fare con loro», dice indicando con un cenno del capo la dogana libica. I militari con le insegne di Tripoli hanno modi altezzosi. Con estenuante lentezza si confrontano per decidere se possiamo procedere oppure no. Non dipende solo dall’offerta che Karim è disposto a lasciare, ma dal loro bisogno di dimostrare chi comanda qui. Le cose, raccontate dal loro punto di vista, hanno una logica. «Se da dietro - spiega un militare - una milizia ci attaccasse, non avremmo nessun rinforzo. Tra noi e Tripoli ci sono troppe città, e ognuna ha un suo esercito. Noi qui siamo abbandonati e secondo i politici gli stipendi dovremmo andarli a ritirare a Tripoli, perché le banche non funzionano». Meglio accettare la gratitudine dei trasportatori che non vogliono seccature.

Più a Sud, al confine con il Sudan, le cose non vanno in modo diverso. Le promesse di Roma e Bruxelles hanno suscitato molto interesse in diverse milizie, che sperano di ottenere fondi e progetti di sviluppo finanziati dall’Italia e dall’Europa. Secondo alcune fonti citate dalla stampa locale libica, paramilitari della tribù Tebu stanno tentando di sigillare il confine con il Sudan, così come stanno provando a fare anche i Suleiman e i Tuareg nelle zone limitrofe. La frontiera del Sudan con la Libia si protrae per quasi 400 chilometri. Un’area prevalentemente desertica molto difficile da pattugliare.

Ancora più complicata la situazione con il Ciad, con cui Tripoli condivide un confine di 1.360 chilometri. Per i trafficanti di uomini trovare un varco è semplice. Ma a mettere a dura prova gli accordi presi tra i dignitari libici e il governo italiano vi è proprio la posizione del Sudan, per il momento rimasto fuori dalle promesse di quattrini e aiuti materiali. Il presidente Omar al Bashir è destinatario di un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità. Per Roma e Bruxelles è complicato formalizzare accordi che risulterebbero ancora più indigesti di quanto non sia avvenuto con gli ambigui leader libici. Un’intesa con Khartoum suonerebbe per Bashir come una legittimazione internazionale che potrebbe metterlo al riparo dal rischio di finire in una cella del tribunale dell’Aja. Il ministro degli Esteri sudanese Ibrahim Ghandour ha negato che i confini con la Libia e il Ciad verranno sigillati. Parole espresse dopo che il vice di Bashir, Hassabu Mohamed Abdalrahman, aveva parlato di imminente chiusura della frontiera allo scopo di impedire il contrabbando di armi e veicoli, escludendo però il traffico di esseri umani.

Ma qui, nella terra di nessuno tra la palude di sabbia che preannuncia il suolo tunisino, tutto è di chiunque se lo prende. Di solito con le cattive maniere. La mancia abilmente passata dalle mani di Karim a una tasca del gendarme è valsa più di un lasciapassare. Una volta raggiunto, cento metri più in là, il posto di controllo tunisino, nessuno controlla il carico, ma solo che i passaporti siano in regola. Meno di 50 chilometri dopo siamo a Zarzis. Chemssedine ripara la rete e scruta il mare. Non si fida dei libici: «È solo una tregua per prendere i vostri soldi. Vi illudete di fermarli, senza fermare fame e piombo».