Attualità

Utero in affitto, coppia assolta

Luigi Gambacorta sabato 19 aprile 2014
Commissionare un figlio in U­craina costa tra i trentamila e i cinquantamila euro. Stessa ci­fra, salvo sconti, in India. È la legge del mercato, quello della fecondazione e­terologa e degli uteri in affitto. Le prati­che vanno a braccetto, nel resto del mondo. Tra il poter avere un figlio gra­zie ai gameti di qualcun altro e l’acqui­sto del pacchetto “completo” – con tan­to di utero e gravidanza appaltati – il passo è breve, soprattutto per le donne in età avanzata, oppure per le coppie gay e i single. Il diritto ad essere genito­ri a tutti i costi si compra, e a farlo sono molti italiani. Conseguenza inevitabile, si diceva, della legge 40 del 2004. Che lo scorso 8 aprile è stata smantellata an­che in quello che restava l’ultimo ba­luardo contro il far west della provetta: il divieto all’eterologa. Ma l’Italia sem­bra voler correre, sul terreno scivolo­sissimo della provetta, ed ecco che – proprio mentre sotto i riflettori della cronaca finisce il clamoroso errore del Pertini, con la prima eterologa e la prima maternità surrogata “coartate” – dal tribunale di Milano arriva anche la pri­ma assoluzione piena su un utero in af­fitto. Come dire: se si vuole, si può fare. La sentenza è di inizio settimana e fa seguito ad altri casi di coppie tornate dall’estero con un figlio non loro finite poi in tribunale. In questo caso i due i­taliani aveva commissionato un bam­bino in Ucraina, stipulando – con e­sperti avvocati e mediatori navigati – un “negozio procreativo”, senza nep­pure conoscere le due donne che (in subappalto) hanno dovuto eseguirlo: la prima – la madre genetica – ha “dona­to”, ovvero venduto, l’ovocita feconda­to; la seconda – la madre biologica – ha fatto col suo corpo da incubatrice por­tando a termine la gestazione. Solo do­po è spuntata la terza donna – la madre committente, o sociale –, cui è stato consegnato il neonato. Secondo una prassi ormai standardizzata la coppia, ottenuto il certificato di nascita, ne ha chiesto la registrazione alla nostra am­basciata. Punto problematico, visto che chi si presenta come genitore in realtà non lo è secondo le leggi del nostro Pae­se e incappa in due reati: l’alterazione di stato e le false dichiarazioni a pub­blico ufficiale. E proprio su questi reati si erano pronunciati altri tribunali, ar­rivando a escludere in alcuni casi il pri­mo ma mai il secondo. Ecco invece il colpo di mano dei giudici milanesi: non solo non esiste alterazione di stato, ma addirittura non si potrebbe più parlare nemmeno di «contrarietà all’ordine pubblico». Per dire la confusione assoluta che re­gna nei palazzi di giustizia: appena cin­que mesi fa (il 26 novembre 2013) il tri­bunale di Brescia ha condannato a cin­que anni una coppia per «alterazione di stato». E l’8 aprile il Gup milanese Gen­naro Mastrangelo ha condannato i «ge­nitori tecnologici» a 16 mesi per «false dichiarazioni». Decidendo di leggere con la sentenza le «motivazioni conte­stuali ». C’è scritto che certe pratiche sfruttano «la miseria di altre donne»; che, in casi come questi, «il progetto ge­nitoriale non appare giustificato»; che un figlio ad ogni costo può essere un «indebito strumento di soddisfazione». C’è la preoccupazione che accontenta­re gli adulti, pur adeguandosi al pro­gresso scientifico, significhi negare il di­ritto dei figli a conoscere le proprie ori­gine genetiche e la mappa del proprio Dna. Parole e riflessioni pesanti, che soltan­to tra 90 giorni potranno essere con­frontate con le motivazioni della sen­tenza dello scorso lunedì. Solo allora il pm potrà ricorrere in appello. Tempi lunghi di una giustizia che, in casi co­me questi, appare sempre più schizo­frenica.