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Università. Voto zero a molti dipartimenti del Sud, scoppia il caso dei finanziamenti

Andrea Lavazza martedì 7 giugno 2022

Gli atenei del Sud sono in gran parte peggiori della media italiana? È quello che sembra emergere dai dati ufficiali ma sinora non resi pubblici dal ministero. La valutazione della qualità universitaria è un tema sempre delicato. Gli accademici in realtà valutano se stessi, con dati bibliometrici quantitativi per le materie scientifiche e qualitativamente con revisori anonimi per le discipline umanistiche. E' appena stata diffusa la classifica dei dipartimenti di eccellenza, i primi 350 in Italia, da cui usciranno (sulla base dei progetti presentati) i 180 che verranno finanziati complessivamente con 271 milioni di euro l’anno (per un totale di 1,355 miliardi nel quinquennio). Lo strumento di base – e per qualcuno sotto accusa – è l'Indicatore standardizzato di performance dipartimentale (ISPD), definito dall'ANVUR, l’agenzia della valutazione, appunto.

Nell’attuale classifica, 144 dipartimenti (cioè i raggruppamenti di insegnamenti e docenti per materie omogenee, per esempio: Scienze giuridiche; Biotecnologie mediche, Matematica) hanno ottenuto il punteggio massimo 100. Il 350°, Elettronica e telecomunicazioni al Politecnico di Torino, ha ottenuto 73. Tutti gli altri dipartimenti, più di 400, sono già stati eliminati, ma non è noto il giudizio numerico che hanno raccolto. Il sito di informazione universitaria Roars.it ha adesso svelato l’intera classifica riferita al quinquennio precedente. Emerge che 119 dipartimenti, la gran parte del Sud e delle Isole, avevano ricevuto una valutazione di 0 (zero) su 100 (ciò non significa che non si sia fatto nulla in termini di ricerca). Inoltre, 236 dipartimenti, circa un terzo, avevano ottenuto meno di 10 su 100. Dal raffronto delle due edizioni, secondo gli analisti di Roars, si desume che nel 2022 il numero di dipartimenti con meno di 10 su 100 in pagella sarebbe cresciuto arrivando intorno ai 300, il 40% del totale.

Che cosa se ne deve concludere? Secondo Giuseppe De Nicolao (statistico all’Università di Pavia) di Roars.it, “delle due l’una: se l’indicatore Ispd davvero ‘si fonda su un modello matematico solido’, Anvur e Mur hanno nascosto al Paese una catastrofica divergenza che, oltre a certificare la bancarotta scientifica di un terzo dei dipartimenti italiani, sancisce il fallimento di un decennio di riforme. Oppure, pur sapendo che Ispd è un termometro impazzito, Anvur e Miur hanno occultato i numeri che ne evidenziavano la fragilità, perché il fine di travasare risorse da Sud a Nord giustificava i mezzi, vale a dire il ricorso ad alchimie numerologiche pseudoscientifiche. In entrambi i casi, Anvur, Mur e il governo sono debitori di una risposta all’opinione pubblica”.

L’idea è che la competizione fatta in questo modo penalizzi ancora di più le università in difficoltà, aumentando le disparità tra Nord e Sud (pochissimi dipartimenti a sud di Roma hanno chance di finire tra i migliori 180 alla fine finanziati sulla base dei progetti presentati). Non tutti sono però di questo parere. Dice Mario De Caro, filosofo a Roma Tre: “Il punto più dolente dell’università italiana è il fenomeno del reclutamento interno, cioè uno studente si laurea nell’università cittadina e poi fa tutta la sua carriera accademica nello stesso ateneo. E ciò accade con diverse proporzioni nei vari atenei”.

Si ricorre al termine inglese inbreeding, preso a prestito dalla genetica delle popolazioni: l’endogamia è l'incrocio fra individui strettamente imparentati o consanguinei. In genere, questa pratica porta a patologie fisiche ma tende anche a rallentare il progresso culturale. “Serve un ricambio, per esempio il divieto per i dottorandi di rimanere come docenti nella medesima sede. Il ministro Berlinguer aveva proposto qualcosa di simile per ogni passaggio di fascia, la discontinuità deve però avvenire prima, nelle fasi iniziali”, suggerisce De Caro.

La ministra dell'Università, Maria Cristina Messa - .

“Personalmente, al di là della spiegazione materiale di questi dati sconfortanti, credo sia necessaria una revisione dello spirito con cui questi finanziamenti vengono erogati – è la considerazione di Matteo Cerri, professore associato di Fisiologia all’Università di Bologna e membro anche dell’IIT –. Lo sforzo immane che mira a costruire un algoritmo imperscrutabile che possa assegnare patenti di eccellenza (e quando smetteremo di usare questa parola, sarà sempre troppo tardi) sembra rispondere principalmente all’esigenza dell’apparato amministrativo di rendere le proprie azioni ‘disumane’, ossia prive dell’arbitrio umano, in modo da non averne responsabilità. Forse, però, questa modalità non è quella ottimale per poter assolvere il compito a cui questi finanziamenti sono chiamati: migliorare la ricerca italiana. Potrebbe essere ora di uno scatto d’orgoglio e di coraggio, per poter sostenere la ricerca italiana con modalità ‘umane’, legate a scelte e, quindi, a responsabilità”.

La soluzione? “Possiamo immaginare – ipotizza Cerri – il finanziatore pubblico della ricerca che agisca come un investitore, e non come un rendicontatore, come chi valuta le potenzialità che un’impresa o una start-up ha e potrà avere nel futuro, più che elargire premialità sulla base dello storico? Il futuro dell’Accademia italiana è nelle mani dei suoi accademici: e questa è sia la buona che la brutta notizia”.

Pietro Perconti, direttore del Dipartimento di Scienze cognitive, psicologiche, pedagogiche e degli studi culturali all’Università di Messina (in Sicilia gli "0" avevano riguardato il 50% dei dipartimenti), inquadra i dati in una cornice più generale. “La prima valutazione aveva segnalato che qui a Messina eravamo indietro, una sottolineatura giusta, perché all’epoca c’era una debolezza che la rilevazione ha fatto emergere. Il punto però è che nemmeno 10 premi Nobel ci avrebbero fatto risalire la classifica, con i metodi attuali. Si misurano i dati in modo assoluto, se qualcuno è improduttivo (e nessuno può più licenziarlo), anche migliorando i nuovi ingressi, come abbiamo fatto noi, non si ottiene un grande cambiamento”.

Quello che serve, allora, propone Perconti, è “una misurazione del differenziale. Bisogna vedere se si è fatta una politica migliore di altri atenei, se ci si è incamminati sulla buona strada nel periodo considerato. La valutazione è sicuramente positiva, ma attualmente non si premia e si punisce (finanziariamente) chi migliora e chi peggiora. Bisognerebbe lavorare sulle tendenze, in modo da incoraggiare chi ha scelto una via virtuosa e non solo chi rimane fermo su una posizione consolidata. Non si può negare che il sistema della ricerca al Sud sia meno buono, ma in Italia c’è molta dispersione delle eccellenze, che anche nel Mezzogiorno non mancano”.

Il neuroscienziato Pietro Pietrini, già direttore della Scuola IMT di Lucca, uno degli scienziati italiani più citati a livello internazionale, è in una posizione adeguata per fare un discorso critico sugli indicatori quantitativi. “La valutazione è sacrosanta, ci vorrebbe un sistema completo di rendicontazione. Ma la competizione basata su questi indici non è più un mezzo utile per la selezione del profilo migliore, rischia di diventare fine se stessa. Si pensa all’impact factor o all’h-index come a uno scopo e non solo un sottoprodotto di un buono lavoro. La ricerca deve tornare a essere valorizzata anche nei termini del tempo lungo di riflessione in libertà di pensiero. Il “publish or perish” esasperato può snaturare la migliore scienza, che perde l’approccio critico”.

Per la situazione del Sud, Pietrini vede, tra le altre, una ragione precisa: il flusso migratorio dei migliori giovani verso Nord o verso l’estero. “Il brain drain colpisce di più in realtà che non promettono gratificazioni all’altezza delle proprie ambizioni. In questo modo, spesso viene impedito il miglioramento di università che perdono i loro potenziali ‘campioni’ senza però riceverne da fuori, come invece avviene in altri atenei. Il saldo così è sempre negativo. Le statistiche, quindi, vanno lette bene, “la vera competizione è tra sapere e non sapere. Serve investire di più senza pretendere risultati immediati”.

La discussione è aperta, intanto al Sud continueranno ad arrivare meno fondi e nell’università italiana la valutazione rimane ancora indigesta.