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Ue. Fondi europei, dopo lo scontro il compromesso che salva la faccia a tutti

Giovanni Maria Del Re, Bruxelles giovedì 10 dicembre 2020

Il premier ungherese Viktor Orbán. Alla fine un compromesso è arrivato

Dopo giorni di muro contro muro e durissime dichiarazioni, all’improvviso sembra essersi sbloccato lo stallo sul veto ungherese e polacco su bilancio Ue e Piano di Rilancio, che si oppongono al nuovo regolamento sul legame tra fondi Ue e rispetto dello Stato di diritto. E questo proprio alla vigilia del Consiglio Europeo che riunisce oggi e domani a Bruxelles i leader dei Ventisette.

Che le cose si stessero mettendo meglio si era capito già martedì sera, quando il premier ungherese Viktor Orbán, dopo un incontro con l’omologo polacco Mateusz Morawiecki a Varsavia, aveva parlato di accordo «a pochi centimetri». Poi ieri in mattinata si è sbilanciato il vicepremier polacco Jaroslaw Gowin: «Abbiamo un accordo a tre, noi, l’Ungheria e la presidenza tedesca» dell’Ue. Orbán ha parlato di «grande vittoria» definendo la giornata di oggi il «D-Day».

Un pre-accordo frutto del lavoro certosino di Berlino, con la cancelliera Angela Merkel ansiosa di salvare il principale successo del suo semestre, il piano di rilancio da 750 miliardi di euro. Probabilmente, del resto, sui due Paesi, tra i primi beneficiari dei fondi Ue, hanno avuto effetto anche le minacce di Berlino di procedere a 25 sul Piano di rilancio.

La prudenza è d’obbligo: l’intesa andrà confermata da tutti e 24 gli altri Stati membri, oggi durante il pranzo del Consiglio Europeo. Siccome ci vuole l’unanimità, sorprese non si possono escludere. In realtà tutti hanno la consapevolezza che un nuovo stallo sarebbe devastante per la credibilità dell’Ue e che quei soldi sono sempre più urgenti a fronte della nuova ondata pandemica. Secondo indiscrezioni, quando la presidenza tedesca ieri pomeriggio ha presentato agli ambasciatori il documento, la reazione è stata positiva. Fonti diplomatiche parlavano di «moderato ottimismo».

La sostanza del compromesso circolava da giorni: una dichiarazione esplicativa aggiuntiva, che lascia intatto il regolamento già approvato politicamente a maggioranza qualificata dagli altri 25 Stati membri e che Polonia e Ungheria volevano cassare in blocco. Regolamento che prevede la possibilità per la Commissione Europea di proporre lo stop al versamento dei fondi qualora uno Stato Ue violi i principi dello Stato di diritto (come il rispetto delle libertà fondamentali o l’indipendenza della magistratura), stop che deve essere convalidato a maggioranza qualificata dagli Stati membri. Budapest e Varsavia, da tempo nel mirino di Bruxelles per la crescente svolta autoritaria, avevano parlato di una norma arbitraria che avrebbe consentito a Bruxelles di «punirli» per scelte «sgradite» all’Ue.

Nel testo, di cui Avvenire ha copia, si specifica che il meccanismo «sarà obiettivo, equo, imparziale e basato sui fatti», assicurando «non discriminazione e pari trattamento degli Stati membri». Ungheria e Polonia hanno del resto spuntato tre elementi cruciali.

Primo, la Commissione dovrà presentare linee-guida per l’applicazione del regolamento, ma, qualora uno Stato membro adisca la Corte Ue contro la normativa, dovrà aspettare il verdetto dei giudici per pubblicarle e per proporre uno stop ai fondi. E, siccome è probabile che Ungheria e Polonia si rivolgeranno alla Corte, potrebbe volerci tempo.

Secondo, il regolamento si applicherà solo al nuovo bilancio 2021-27, non ai fondi che arrivano dal bilancio attuale e che continueranno a esser versati nei prossimi anni.

Terzo, per lo stop non basterà «la mera constatazione che si è verificata una violazione dello Stato di diritto», ma sarà necessario che «i legami causali tra tali violazione e le conseguenze negative per gli interessi finanziari dell’Unione siano sufficientemente diretti e adeguatamente dimostrati».

Paletti che renderanno più complicato applicare la normativa. Ma potrebbero bastare per salvare la faccia a entrambe le "fazioni": da una parte Polonia e Ungheria, dall’altra i "Frugali" (Olanda, Austria, Svezia, Danimarca) e il Parlamento Europeo che hanno preteso il meccanismo. Se tutto andrà bene, il Piano di rilancio potrà partire.