Attualità

Elezioni. Voto 2015, ora la resa dei conti nel Pd

Marco Iasevoli martedì 2 giugno 2015
«Abbiamo sventato un altro assalto del 'partito nel partito'. Ora abbiamo dei problemi da risolvere e li risolveremo. Ma li risolveremo con la forza di chi ha vinto cinque Regioni su sette, dieci negli ultimi diciotto mesi. Al centrodestra ne sono rimaste tre, M5S esulta ma sta a guardare... E tutto mentre stiamo facendo riforme che scontentano, che non danno voti ma li tolgono». La decisione di imbarcarsi all’alba e andare a passare il giorno del postvoto a Herat, a fianco ai militari di stanza in Afghanistan, è stata un toccasana per Matteo Renzi.  Guardando in faccia «la battaglia di quel popolo per una vita normale», vestendo la mimetica dei «nostri ragazzi» le polemiche romane perdono peso e valore. «Il risultato è molto positivo – dice con distacco appena rimesso piede in Italia –, andiamo avanti con ancora maggiore determinazione per cambiare il partito e il Paese».  La rabbia della notte di domenica è sbollita. La partita alla Playstation con Matteo Orfini, racconta chi ha passato il giorno del voto con il premier, è da collocare proprio nel momento in cui sembrava essere persa anche l’Umbria. Poi la vittoria al fotofinish che ha messo in cassaforte il 52. Però i problemi ci sono, e sono seri. Renzi li mette in ordine. Primo, il Veneto, il Nord-Est che sembra aver chiuso di nuovo le porte al Pd dopo le aperture di credito delle Europee. Secondo, il Mezzogiorno, «perché ora con tutti governatori nostri non abbiamo più alibi, ci vorrà una cabina di regia per il Sud». Terzo, il cammino delle riforme, con un tentativo di dialogo soft sulla scuola e sul nuovo Senato. Quarto, le fatiche delle Regioni 'rosse'. «Bisogna cambiare, gli elettori pensano che la rottamazione si sia fermata a Roma...», spiega Renzi ai suoi. Quinto problema, il più grave, la minoranza Pd. Il premier era furioso per il risultato in Liguria, ha impiegato ore per assorbirlo. Ma lunedì sera è convocata una direzione in cui l’ex sindaco di Firenze alzerà il tiro, altro che mediazione: «Basta con i due partiti in uno. Per molto meno in passato ci sarebbero state espulsioni a valanga. Per chi vuole regolare i conti c’è il congresso del 2017. Sino ad allora tocca a noi e alla nostra agenda. Se poi ci vogliono far cadere, facciano pure, si è visto che l’unico effetto concreto è resuscitare Berlusconi e Grillo. Mi immaginano pronto a fare piccoli compromessi per evitare il voto anticipato? Si sbagliano...». Parola che braccano sul nascere i numeri inviti ad un «maggiore dialogo» che gli fanno piovere sia sms e via agenzie di stampa i leader della minoranza dem. Questa l’analisi. Poi ci vuole una soluzione. Che ha un solo nome: rimpasto. Rimpasto nel governo per rafforzare Istruzione, Sviluppo e Mezzogiorno. Rimpasto in Parlamento, per coprire la pedina di capogruppo. E poi nuovo assetto nel partito con un uomo forte che governi i territori e diffonda il verbo renziano. È la prospettiva che porta Lorenzo Guerini alla guida del truppone democrat a Montecitorio e Luca Lotti alla carica di vicesegretario unico del Pd. Quest’ultima sarebbe una grave perdita per l’esecutivo, ma appare una scelta inevitabile. D’altra parte ora o mai più, dato che il Paese non avrà elezioni a nessun livello - a meno di problemi - nei prossimi due anni.  Dunque sbaglia la sinistra Pd a sperare che il risultato in Liguria porti Renzi a più miti consigli? In pratica sì. Il premier è pronto a qualche correzione al ddl Scuola, ma non si va oltre un «monitoraggio » dei poteri del preside. Così come sulla riforma istituzionale, per la quale si conta di recuperare almeno parte di Forza Italia, il punto di mediazione massimo è quello di rendere 'riconoscibili' dagli elettori i consiglieri regionali che poi andranno al Senato. Un intervento di tipo tecnico senza modifiche al testo né ritardi nell’iter. Nulla di più. Un sorriso liquidatorio accompagna la richiesta di Ap di ritoccare l’Italicum.  Chiaro che l’orizzonte resta governare sino al 2018. Ma con il motto di sempre: «Non a tutti i costi». L’intento è quello. Ci sono i dati sulla ripresa, le riforme della PA e del fisco. C’è il tempo di correggere alcuni errori commessi. Tra questi, sussurra qualche renziano, c’è anche il tema dell’immigrazione. Renzi resta convinto che l’Italia debba essere in Europa «culla di civiltà». Però è passato un messaggio 'lassista' anche grazie alla campagna elettorale di Salvini. Il cambio di rotta inizierà con il Consiglio Ue di fine giugno, dove il premier è disposto ad andare fino in fondo contro soluzioni arrangiate sulle quote e sui soldi. Non si parla di veto, sarebbe controproducente. Ma siamo lì. Prima ancora, domenica e lunedì, Renzi porrà il problema a Obama e Merkel durante il G7 in Baviera, chiedendo di accelerare le decisioni in sede Onu.