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Il commento. Corridoi umanitari, una buona pratica che dobbiamo rilanciare

Paolo Naso martedì 2 marzo 2021

Aeroporto di Fiumicino, 27 marzo 2018. L'arrivo di profughi siriani dal Libano attraverso i corridoi umanitari attivati da Sant'Egidio, Chiese Riformate e Ministeri Interni ed Esteri

Cinque anni fa – era il 29 febbraio 2016 – arrivavano in Italia i primi beneficiari dei Corridoi Umanitari promossi dalla Federazione delle Chiese Evangeliche (Fcei), dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola valdese: 24 famiglie per quasi cento persone, uomini, donne e bambini che in poche ore erano passati da un campo profughi in Libano alla richiesta d’asilo all’aeroporto di Fiumicino. In cinque anni oltre duemila profughi, in massima parte siriani, hanno potuto beneficiare di questa procedura grazie a protocolli sottoscritti dagli enti promotori con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri.

A seguire, iniziative analoghe sono state realizzate ancora in Italia promosse dalla Cei attraverso la Caritas, ma anche in Francia, Belgio e Andora. Un esperimento esplicitamente ispirato al modello dei corridoi umanitari 'italiani' è stato avviato in Germania. In Italia i promotori dei Corridoi Umanitari sono stati evangelici e cattolici che, insieme, hanno cercato di reagire alle ripetute notizie delle stragi in mare.

La data del 3 ottobre 2013 quando a largo di Lampedusa morirono 368 migranti era ancora ben impressa nella mente, così come l’immagine delle centinaia di bare ordinatamente disposte nell’hangar dell’aeroporto dell’isola. In quell’occasione il cordoglio fu più unanime di quanto non sarebbe oggi, e i Corridoi Umanitari furono una della risposte più concrete e immediatamente praticabili che si potessero immaginare. Il regolamento visti del Trattato di Schengen, infatti, prevede il rilascio di 'visti umanitari' che consentono a persone in condizione di documentata vulnerabilità di accedere a uno dei Paesi dell’Area di libera circolazione. Grazie alla collaborazione dei Ministeri interessati, ricorrendo per la prima volta a questa procedura, si attivò un meccanismo che coinvolgeva attori istituzionali ed espressioni della società civile.

Gli operatori delle Chiese evangeliche e della Comunità di Sant’Egidio si attivarono in Libano per individuare casi di evidente vulnerabilità che venivano segnalati alle autorità consolari che, dopo le verifiche di sicurezza, concedevano il visto che consentiva ai beneficiari di imbarcarsi su un aereo e di arrivare legalmente in Italia. Ma questa è solo la prima parte del modello dei Corridoi; l’altra, forse la più importante, è quella dell’inserimento in Italia, un vero e proprio processo di integrazione che prevede, tra l’altro, l’apprendimento dell’italiano, la formazione al lavoro, l’inserimento dei figli a scuola.

Le storie di beneficiari che hanno aperto attività commerciali, che si sono laureati nelle nostre università, che hanno trovato lavoro sono molte e ben documentate: vite spezzate che si sono ricomposte, persone uccise dalla disperazione che sono risorte grazie a una mano che è stata tesa loro da gruppi locali, parrocchie, chiese, associazioni anche laiche che si sono messe insieme per sostenere il progetto dei Corridoi Umanitari. Concluso anche il secondo protocollo, superati i problemi determinati dalla pandemia, ora è tempo di ripartire con un’iniziativa più coraggiosa da attuarsi a livello sia nazionale che europeo: un nuovo accordo che preveda l’accoglienza di beneficiari provenienti anche da altri Paesi oltre al Libano e la possibilità di iniziative umanitarie di emergenza: ad esempio accogliendo con la stessa procedura profughi dalla Bosnia.

Ma anche un’azione in sede europea per aprire un corridoio umanitario dalla Libia a difesa dei diritti umani e per attuare un serio contrasto allo human trafficking. La retorica anticostituzionale e disumana dei respingimenti in mare non ci ha portato lontano. E neanche quella degli accordi capestro con Paesi che non garantiscono diritti umani fondamentali. Occorre altro, certamente piani di cooperazione e di stabilizzazioni dei Paesi dove si raccolgono i migranti, ma anche vie d’accesso sostenibili, legali e sicure per i Paesi dell’Unione Europea. Probabilmente non è una proposta popolare né politicamente remunerativa. Ma, come diceva Martin Luther King, alcune cose non vanno fatte né perché vantaggiose né perché ci portano consenso, ma semplicemente perché sono giuste.

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