Attualità

L'ISOLA FERITA. Tsunami dalla diga Il paese devastato dall’onda di 5 metri

Paolo Viana venerdì 22 novembre 2013
Sulle facciate del Comune, i murales dei barcaioli celebrano l’amicizia con il fiume che ha ucciso Maria e ha gettato sul lastrico decine di famiglie di Torpé. Un filo antico lega i sardi, popolo di terra, ai loro fiumi, ancorché avari e bizzosi, e non lo spezzerà neppure questa tragedia. Da sempre, questo è il paese sotto la diga; la sua acqua dà la vita e la toglie. Lunedì notte l’impianto di Maccheronis ha superato indenne la bomba d’acqua, ma non è stato lo stesso per il rio Posada, che entra ed esce dall’invaso e si dirama in decine di canali. Al termine di una giornata di piogge come non se ne vedeva da mille anni, uno tsunami di ottanta milioni di metri cubi ha superato la sponda di cemento armato della diga e si è riversato nel fiume, rompendo gli argini e sommergendo abitazioni ed armenti. In quel momento, Salvatore Ruiu si trovava nell’agro di Posada, l’ultimo comune prima del mare: «Ho visto arrivare un muro di schiuma e di acqua alto quasi cinque metri – ci racconta – ed avanzava lentamente, mangiandosi tutto». Il suo allevamento di cani non esiste più. Neanche la spiaggia, una delle più belle della Sardegna. In compenso il fiume ora ha due foci in più. All’indomani del disastro, nel rincorrersi di polemiche e sospetti, la diga di Maccheronis è l’unico impianto direttamente collegato al bilancio di morte dell’alluvione: i funerali di Maria Frigiolini, l’invalida di 88 anni sorpresa in casa dall’alluvione, sono stati celebrati ieri nella parrocchiale di Torpé. Nello stesso momento passeggiavamo sulla grande diga, sotto il sole freddo e il vento che ci schiaffeggiava dal monte Murres, cercando di capire come un invaso di 650 chilometri quadrati, creato per irrigare le campagne e poi ampliato per alimentare i potabilizzatori di 5 comuni, possa essere finito nei fascicoli dei magistrati di Nuoro che hanno aperto un’inchiesta. Cosa sia successo ce lo spiega Antonio Madau, direttore del Consorzio di bonifica della Sardegna centrale, che gestisce la struttura per conto dell’Enas regionale: «Quando l’hanno costruita, nel 1958, hanno calcolato la portata su una scala millenaria, dandole una capacità di 25 milioni di metri cubi, ma in dodici ore il Posada e i torrenti che scendono dalle montagne hanno riversato nel bacino 100 milioni di metri cubi». Per fortuna, l’impianto era stato parzialmente svuotato e ha agito, spiegano i tecnici, da cassa di laminazione; in parole semplici, poteva andare peggio. «Il canale di scarico va a 60 metri cubi al secondo – argomenta infatti Madau –, mentre la portata del Posada è passata dai normali 5 a 3.300 metri cubi al secondo»: in questi numeri è scritta la tragedia di Torpé. «La diga ha retto – sintetizza il tecnico – ma non hanno retto gli argini, realizzati per fronteggiare piene di 2.200 metri cubi al secondo; ma, ripeto, ci trovavamo di fronte a un evento imprevedibile». Imprevedibile, eccezionale, ultramillenario, aggettivi che circoscrivono l’inadeguatezza delle norme e delle tecniche di un Paese temperato precipitato in uno scenario tropicale. Paradossalmente, però, norme e tecniche sono ultramoderne se raffrontate al patrimonio abitativo e infrastrutturale del Paese: le case investite dall’onda di piena, a Torpé come altrove, si trovano in piena area a rischio idrogeologico 4, quindi non edificabile, tuttavia quando sono state costruite i piani di assetto idrogeologico ancora non esistevano. Le indagini appureranno anche se nel disastro abbia avuto un ruolo l’avandiga, un terrapieno che l’alluvione ha eroso (ma anch’esso ha tenuto) o se ce l’abbia il blocco dei lavori, al centro di un contenzioso legale. Quei lavori peraltro avrebbero portato la capacità dell’invaso dagli attuali 22,5 (il valore reale di oggi) a 35 milioni di metri cubi; insomma, anche se il cantiere fosse stato completato in tempo sarebbero piovuti 65 milioni di metri cubi di troppo... Sembrerebbe di non aver alternativa ad inchinarsi a Giove Pluvio, rassegnarsi ai lutti, agli sfollati, alla paura che rinasce ad ogni goccia che cade dal cielo – l’altro ieri, la notizia (falsa) di un cedimento della diga di Mogoro ha seminato il panico a Uras – e invece basta fare qualche chilometro verso l’Ogliastra per scoprire che il problema di quest’angolo di Barbagia dove si parla già il gallurese non dipende dalla diga che c’è, bensì da quella che non c’è. A Dorgali, il fiume Cedrino è interrotto da una grande vasca di laminazione che serve a contenere le piene e che lunedì notte ha funzionato egregiamente. «Anche qui abbiamo presentato anni fa il progetto di un altro invaso per risolvere i problemi di Maccheronis – rivela Madau – ma non ha superato l’esame del Via regionale». Le idee per prevenire i disastri, insomma, non mancano: in Sardegna, dove il 9,2% dei comuni è a rischio, i consorzi di bonifica hanno presentato una quarantina di progetti (263 milioni di euro), ma sono rimasti lettera morta.