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L'elezione a gennaio 2022. Tre strade verso il Quirinale, ecco la strategia dei leader

Marco Iasevoli e Angelo Picariello martedì 4 maggio 2021

La regola d’ingaggio è una sola: tenere fuori dalla mischia la campagna vaccinale e il Recovery plan, i due "fuochi" del governo Draghi, cui si aggiungerà presto un terzo, meno neutrale e più complesso, quello delle riforme. Per il resto, i partiti di maggioranza si avvicineranno alla scadenza chiave della legislatura, l’elezione a fine gennaio 2022 del nuovo presidente della Repubblica, attivando qualsiasi arma per far prevalere la propria strategia. L’escalation è già iniziata da alcune settimane intorno a temi-bandiera come il coprifuoco o il ddl Zan, mine nel cammino di una maggioranza già molto composita, ma la guerra vera si annuncia da fine luglio, con l’inizio ufficiale del "semestre bianco" in cui il capo dello Stato non può sciogliere le Camere. Perché una quadra, in maggioranza, non c’è e probabilmente non ci sarà. I partiti confluiti nell’esecutivo Draghi hanno accettato le "larghe intese" proprio con l’idea di non restare fuori dai giochi per il Colle, ma quali siano i giochi e quale il perimetro è una sceneggiatura ancora tutta da scrivere. Il rischio, ovviamente, è il caos.

La linea-Salvini: subito Draghi al Colle ed elezioni. Il capo della Lega ha un atteggiamento che in politica può diventare un difetto: se ha un progetto, o se ha un problema, lo fa capire con chiarezza. E il problema a destra, per lui, si chiama Giorgia Meloni. Per arginarlo, ha in mente una sola strada: spingere Mario Draghi al Quirinale subito e provare ad ottenere il voto anticipato nella primavera 2022, per scongiurare il rischio di diventare, da plenipotenziario, il secondo azionista del centrodestra. Salvini la spiega in lungo e in largo la sua strategia, anche agli scettici come Giorgetti: minare ogni giorno la maggioranza salvando solo Draghi, di modo da farne in automatico il garante dell’equilibrio tra centrodestra e centrosinistra. Una linea insieme grezza e sottile, perché vorrebbe porre Pd e M5s di fronte a un quesito scomodo: «Perché dite no all’uomo che sostenete come premier?».

L’asse Pd-M5s (che tenta anche Fi): Draghi resta a Palazzo Chigi, una rosa per il Colle. Alla domanda di Salvini, Pd e M5s non possono rispondere in modo chiaro. Dovrebbero dire che non vogliono il voto anticipato, ma questo sarebbe un segno di debolezza. Preferiscono, quindi, indicare altre motivazioni: «Draghi deve completare il suo lavoro da premier», è il senso di tutte le ultime affermazioni pubbliche di Enrico Letta. Che si è anche spinto a mettere in dubbio la tenuta delle larghe intese sino a gennaio 2022, come a evocare uno scenario modello "Ursula", simile a quello che reggeva proprio l’esecutivo Letta nel suo confine a destra entro i limiti del Ppe. Pd-M5s sarebbero quindi favorevoli a un Mattarella-bis? Qui il discorso diventa ancor più complesso. I vertici dem e pentastellati si fanno una raffica di controdomande: «Se Mattarella fa il bis, e poi quando si dimette c’è una nuova maggioranza di destra, chi ci dice che Draghi sarebbe il candidato di Salvini? E se Fi sparisce? E se comanda Meloni?». Meglio allora affrontare la questione subito, stante anche la reiterata ed esplicita indisponibilità manifestata da Mattarella a un bis modello Napolitano. Il gioco di provare a mettere la Lega ai margini dell’attuale governo sarebbe quindi funzionale a realizzare, intorno al Colle, una maggioranza composta da Pd, M5s, Leu e Forza Italia, offrendo al partito di Berlusconi, attraverso Letta (Gianni), un nome di garanzia all’interno di una rosa in cui potrebbero entrare personalità "europee" come Paolo Gentiloni o David Sassoli (espressioni autorevoli dell’accordo di governo tra Pse e Ppe) o "interne" come Dario Franceschini, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Giuseppe Conte. La "garanzia" offerta a Fi (che potrebbe però controproporre proprio Gianni Letta;) sarebbe soprattutto quella di non andare incontro a un voto anticipato dagli esiti imprevedibili. È un nucleo che può ospitare anche nomi storici, come quello di Romano Prodi e Giuliano Amato.

Lo schema Renzi dal centrodestra al Pd. Parzialmente "a riposo" dopo la caduta del governo Conte e la nascita del governo Draghi, Matteo Renzi tiene compatta la compagine parlamentare di Italia Viva indicando il Colle come obiettivo strategico: se Iv non si sfalda potrà essere decisiva, nei disegni dell’ex premier. Lo schema su cui lavora Renzi è, come suo solito, spiazzante: un "centrodestra più Pd", che darebbe molto risalto ai vari "centri" sparsi nelle due aule parlamentari. Un nome pivot di questo schema potrebbe essere quello di Pier Ferdinando Casini, ex presidente della Camera. Fantapolitica? L’ex premier, quando gli dicono così, sorride…

Le vie di mezzo e l’extrema ratio del Mattarella-bis. Ci sono alcune mediazioni e sintesi possibili, tra i vari scenari portati avanti dai partiti a mo’ di testuggine. Ad esempio, l’ipotesi di una salita di Draghi al Colle a gennaio potrebbe essere compatibile con la prosecuzione delle larghe intese, ma con un nuovo premier dal profilo tecnico (Daniele Franco) o istituzionale (Marta Cartabia). Ma la stessa ex presidente della Consulta e attuale ministra della Giustizia potrebbe essere l’opzione giusta per una mediazione alta al Quirinale che consentirebbe a Draghi di proseguire il suo attuale lavoro (né al Colle né a Palazzo Chigi è mai salita una donna). Fuori da ogni volontà di intesa, rischierebbe di prevalere il muro contro muro e un nuovo impasse istituzionale. È in questo scenario da extrema ratio che il Mattarella-bis conserva le sue quotazioni, con una formula "a tempo" simile al Napolitano-bis, con i partiti che salgono al Quirinale a chiederglielo, ammettendo l’ennesimo default della politica. Uno scenario estremo, in assenza del quale restano attuali le parole pubbliche di ferma contrarietà pronunciate dallo stesso Mattarella in due momenti: quando, nel discorso di fine anno, dichiarò che il 2021 sarebbe stato il suo ultimo anno da presidente; poi il 2 febbraio quando, ricordando il predecessore Antonio Segni, dichiarò di concordare con la dottrina dello stesso Segni di fissare in Costituzione, al posto del vincolo del semestre bianco, la "non immediata rieleggibilità" del capo dello Stato.