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Elezioni. Torino vota per il sindaco e sogna di tornare "capitale"

Paolo Viana, inviato a Torino mercoledì 29 settembre 2021

Stefano Lo Russo punta al ballottaggio e si aggrappa alla tradizione. Non sarebbe la prima volta che il secondo turno arride a un candidato sindaco del centrosinistra. Secondo i sondaggi sta recuperando, ma sono settimane che rincorre il centrodestra che si è affidato a "Torino bellissima", il progetto del civico Paolo Damilano, 56 anni, imprenditore del Barolo (e delle acque) e per 5 anni alla guida del Museo del cinema. Lo Russo rincorre con affanno: alle primarie del centrosinistra ha raggranellato il 37,48% e non può sperare in un appoggio dei grillini, i quali non dimenticano che per 5 anni il 45enne capogruppo del Pd in Sala Rossa ha fatto vedere i sorci verdi alla loro Chiara Appendino.

Se Lo Russo perderà queste amministrative, a sinistra voleranno gli stracci. Si dirà che, per conquistare il voto moderato, si doveva candidare il rettore del Politecnico, Guido Saracco, o un’altra eminenza grigia della società civile. Sarà processato il partito stesso, anche per colpe non sue. «Il vero problema di Torino è che non riesce più a selezionare una classe dirigente degna di questo nome – ci spiega Maria Luisa Coppa, presidente di Ascom Torino -. I salotti non hanno più il peso e l’interesse a pesare. Mancano i visionari come Salza e Agnelli, ah quanto ci mancano!».

A voler vedere, non mancano solo i salotti. Difetta quella che un altro interlocutore delle istituzioni locali, il superiore del Cottolengo don Carmine Arice, definisce «la visione profetica». Più laicamente, si potrebbe dire che la vecchia Torino della Fiat, del Pci e dei sindaci che dialogavano con casa Agnelli non esiste proprio più. Archiviato il decennio dell’ultimo sindaco di sinistra (Piero Fassino) e della contestazione grillina, il 3 e 4 ottobre si reca alle urne una città orfana di un’ideologia, di un’identità economica e di un ruolo storico.

Probabilmente, i torinesi premieranno chi saprà proporre loro un’idea semplice e realistica di come spendere i soldi del Pnrr, che tutti i candidati danno inopinatamente per scontati. Una vecchia volpe dell’amministrazione locale, però, li mette sull’avviso: «Quei milioni non basta farseli assegnare: bisogna attrezzarsi per gestire i progetti e rendicontarli e oggi non c’è un ufficio in grado di farlo», sottolinea Tom D’Alessandri, vicesindaco di Chiamparino e Fassino e oggi presidente della fondazione Operti.

Le parole dell’ex sindacalista Fiat scoperchiano il vaso di Pandora dell’amministrazione Appendino. I 5 stelle non hanno perso la città solo perché hanno imposto alla loro sindaca di rinunciare alle Olimpiadi invernali del 2026 - decisione che è diventata la lettera scarlatta dell’amministrazione uscente -, ma anche perché non hanno saputo costruire un rapporto di collaborazione con la burocrazia comunale. Al punto che parecchi dirigenti dei dipartimenti chiave hanno scelto di andare in pensione. «La normativa organizza il lavoro per dipartimenti verticali - osserva D’Alessandri -, ma oggi non risolvi nessun problema se non hai un approccio orizzontale, se giunta e dirigenti lavorano insieme».

La collaborazione era già fragile e il processo per i morti e i feriti di piazza San Carlo (3 giugno 2017), in cui i funzionari si sono sentiti "scaricati" dalla sindaca, l’ha fatta a pezzi. Con ovvie conseguenze: «La giunta Appendino ha trascinato la città nell’immobilità - dice Coppa -. Oggi le istituzioni sono assenti su tutti i progetti strategici: Stellantis annuncia che lascerà il Lingotto e nessuno dice niente; il centro congressi dell’area Westinghouse è stato appaltato a Milanofiere; siamo fuori da tutti i Cda che contano. Serve un sindaco che ricordi ai torinesi, e non solo a loro, che siamo la prima capitale d’Italia».

Invece, i programmi volano basso. La ricetta del centrosinistra è quella di dieci anni fa: innovazione tecnologica e una spruzzata di cultura, per far dimenticare l’anima fordista della città. Fedele a se stesso è anche il centrodestra: più sicurezza, infrastrutture e edilizia privata. Il 3 e 4 ottobre si sfideranno due déjà vu e vincerà chi saprà dare l’impressione di saper usare meglio i soldi dell’Europa per restituire a Torino l’onore perduto in anni di sconfitte economiche e ripiegamento sociale.

Il fattore anagrafico ha il suo bel peso nella percezione della discontinuità che vorrebbero gli elettori: la popolazione cui dovrebbero stare più a cuore l’innovazione e uno sviluppo legato alle tecnologie, che va dai 20 ai 40 anni, pesa poco più del 21%, mentre i torinesi attenti alle sicurezze sociali e al patrimonio, che possiamo individuare negli ultra 60enni, superano il 32% degli 857mila residenti. «Le ultime giunte municipali - osserva Pierluigi Dovis, direttore della Caritas da 22 anni - hanno tentato di guidare la transizione sociale della città.

Alcune cose sono state affrontate: sono state trovate soluzioni per i richiedenti asilo e i senza dimora, c’è stata una volontà di co-progettarle tra pubblico e privato, ma alla fine non si è riusciti a stabilizzare le scelte fatte. Inoltre, si avverte nell’amministrazione una nuova mentalità accentratrice: più rispettosa dei soggetti rispetto al passato, ma ancora guidata dall’idea che il pilota sia l’ente pubblico, mentre dovrebbe essere il facilitatore sussidiario». Al contrario, don Arice consiglia al nuovo sindaco di propiziare un harambee. È swahili. Lo dicono i pescatori bantu quando tirano su le reti e significa "tutti insieme".