Attualità

INCHIESTA. Sanità, profondo rosso Il futuro dopo i tagli

Enrico Negrotti giovedì 31 gennaio 2013
​I tagli al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, giustificati dalla situazione di crisi economica che riduce le risorse a disposizione (non solo nel nostro Paese), hanno reso più urgente una ridefinizione di un modello sanitario, che salvaguardando i principi di equità e universalità permetta però di fare un salto di paradigma, contenendo le spese senza ridurre la qualità delle cure. Le manovre che si sono susseguite nell’ultimo anno e mezzo hanno ridotto in modo significativo le risorse del fondo sanitario, e le preoccupazioni sulla sostenibilità del sistema nel suo complesso sono cresciute dopo le parole del presidente del Consiglio Mario Monti che, per il futuro, ha posto l’interrogativo sull’opportunità di affiancare al finanziamento a carico della fiscalità generale forme di finanziamento integrativo. Tuttavia, sottolineano gli esperti, anche se molto può essere ancora migliorato in termini di efficienza, non va trascurato il significato culturale ed etico di una sanità al servizio del bene comune. Partiamo dalle cifre. «Nel Dpef del 2010 – spiega Americo Cicchetti, direttore dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica – erano state fatte proiezioni che indicavano una spesa, per la sanità, di 119 miliardi di euro nel 2014. Rispetto a quella tendenza, con un aumento del 3-3,5% annuo, sono stati previsti tagli per 11,5 miliardi, conseguenti dalla somma degli interventi effettuati con la legge 111/2011, con la “spending review” del 2012 e con la legge di stabilità di ottobre 2012. Il finanziamento del 2014 sarà quindi di circa 108 miliardi di euro, poco più di quanto si spendeva nel 2010: il trend di crescita si è fermato. Un blocco della spesa per quattro anni non succedeva dal 1994». Questa situazione si è creata per uno squilibrio che è cresciuto con gli anni. Continua Cicchetti: «In un decennio di crescita economica debole (2001-2011), in cui il pil è cresciuto complessivamente di 2,8 punti, la spesa sanitaria viceversa è aumentata di 45 punti, drenando risorse ai settori della ricerca e dell’istruzione e causando debito» (che si sta faticosamente recuperando con i piani di rientro regionali). Anche se la nostra spesa sanitaria pubblica è inferiore a quella di altri Paesi europei (circa il 7% del pil, contro l’8,3% della media Ue), scontiamo il fatto che il bilancio statale è gravato dall’enorme carico del sistema pensionistico. Le soluzioni per mantenere sostenibile il sistema sono da un lato economiche, da un lato organizzative (al netto di scandali e ruberie, da punire). Sul primo fronte, come suggerito da Monti, appare forse inevitabile un’apertura al secondo pilastro: «Si potrebbe pensare – aggiunge Cicchetti – a una copertura assicurativa obbligatoria per una parte della spesa sanitaria, tecnicamente valida ma con un premio basso proprio perché estesa a tutti. Altre soluzioni già sperimentate, ma poco gradite, sono la tassa di scopo o l’aumento dei ticket». «La crisi richiede un aggiustamento dei paradigmi – sottolinea Silvio Brusaferro, docente di Igiene presso l’Università di Udine e membro della Consulta dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute della Cei – accompagnato da uno sforzo di innovazione e di creatività. Occorre d’altra parte che si tragga il massimo dell’utilità da ogni euro investito». Per esempio trasformando il sistema di pagamento: «Attualmente, con i Drg, si paga la prestazione, ma senza tenere conto dell’esito. Quindi se si esegue un esame inutile, questo viene rimborsato, indipendentemente dalla sua incidenza sulla cura. Viceversa se si pagasse un pacchetto di prestazioni per giungere al risultato, gli esami inutili sarebbero disincentivati». Altri aspetti organizzativi rilevanti, osserva Brusaferro, riguardano la rete dei servizi: «Spesso non c’è molto tra l’ospedale e il medico di base, ma i servizi intermedi, come le Rsa, possono avere un rilevante impatto in termini di miglioramento della qualità della vita dei pazienti e di riduzione dei costi. Così come poco si fa sul fronte della prevenzione, ed esistono già studi statunitensi che mostrano come il 20-25% delle risorse impiegate in sanità potrebbero essere razionalizzate». Altrettanto importante è il tempo da dedicare alla migliore informazione al cittadino («che può portare a riduzione di prestazioni dal 6 al 20%») e alla creazione di reti sociali («migliorano la qualità della vita e riducono il rischio di istituzionalizzazione degli anziani»). «Per uscire dalla crisi – osserva l’epidemiologo Giovanni Baglìo, membro della Consulta dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute della Cei – non si può guardare solo all’economia ma anche ai valori. C’è l’impressione che la sanità viva una fase di subalternità culturale rispetto ad altre istanze, che seguono logiche diverse». «È stato dimostrato – aggiunge – che quando il welfare è insufficiente e aumentano le diseguaglianze, gli effetti negativi colpiscono tutta la collettività. La difesa del Servizio sanitario nazionale pertanto non è opera di mera filantropia». Molto si può ancora fare – aggiungono gli esperti – in termini di razionalizzazione dei servizi, appropriatezza prescrittiva e responsabilizzazione della domanda. Ricordando che non tutto ciò che si può fare è utile: «Le risorse non sono infinite – conclude Baglìo – e l’orizzonte della responsabilità ci riguarda tutti, per difendere quel che ci è stato consegnato e trasmetterlo a chi verrà poi».