Attualità

Ricordo. «Sventai io l'attentato Br contro De Mita. Lo stesso commando uccise Ruffilli»

Angelo Picariello venerdì 27 maggio 2022

Gli annunci funebri per Ciriaco De Mita

«Sono sicuro che l’'inchiesta' del brigatista Antonino Fosso, quando lo arrestai, il 27 gennaio 1988, avesse per obiettivo Ciriaco De Mita. E l’attività che stava svolgendo con altri complici nei pressi della sua abitazione era compatibile con un rapimento».

Poteva essere un nuovo caso Moro, progettato dalle Br nel disperato tentativo di rilanciarsi, 10 anni dopo via Fani.

Il colonnello Domenico Di Petrillo al tempo era alla guida della sezione anti-terrorismo dei carabinieri di Roma «che ereditava dal generale Dalla Chiesa un metodo d’indagine innovativo», ricorda. Definita in gergo «la tecnica dell’acchiappo», si avvaleva dei collaboratori di giustizia per la prima volta 'arruolati' anche in chiave operativa e di consulenza - e di infiltrati, uno dei quali «indicato da Ugo Pecchioli, dirigente del Pci, innescò la 'operazione Olocausto', durata 10 anni. «Con il metodo dei 'rami verdi', perseguendo cioè solo i comportamenti penalmente rilevanti, mantenevamo i contatti operativi, utilizzando le altre conoscenze per operazioni successive. In 12 anni così riuscimmo a catturare quasi 500 persone, fra questi 25 terroristi, molti di altissimo livello, come Fosso». Le memorie di Di Petrillo sono state raccolte in un libro, Il lungo assedio, edito da Melampo, ma in questa intervista svela nuovi particolari sul mancato attentato a colui che in quel momento era l’uomo più potente d’Italia.

Che cosa era accaduto?

Fosso era sfuggito alla cattura due volte, una in via Alessandria, vicino Porta Pia, un’altra al quartiere Monteverde. Ma riuscimmo a fotografarlo e individuammo anche la sua auto, a cui tagliammo di notte la cinghia di trasmissione: se si fosse spostato avrebbe dovuto fermarsi subito. Ma quell’auto da lì non si è mai mossa.

Quindi?

Forse sospettò di essere stato pedinato, in ogni caso fece perdere le sue tracce. Fintanto che un collaboratore di giustizia, Walter di Cera, non ci segnalò di averlo visto nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore mentre era in permesso per visita ai familiari. Fosso avendolo riconosciuto come un 'traditore' lo aveva inseguito, ed era scampato per poco alla vendetta. Questo ci consentì di sapere che Fosso era ancora, o di nuovo, a Roma, forse per portare a termine qualcosa di eclatante. E il giorno dopo...

Lo trovate sotto casa di De Mita.

In realtà io abitavo nei pressi delle Fosse Ardeatine, in via Meropia, e di lì ci muovevamo ogni mattina col capitano Enrico Cataldi, mio collaboratore, per andare al lavoro. All’atto di girare per via della Annunziatella vedo alla fermata dell’autobus, un giovane che mi pare di riconoscere: «Ma è Fosso!», esclamo, e dico all’autista di fare il giro dell’isolato. Confesso di aver pensato di essere io stesso il bersaglio, ma tornando vediamo che Fosso non c’è più, quindi inseguiamo l’autobus in piazza dei Navigatori. Lo vedo scendere, chiamo la Sezione sperando in rinforzi (visto che ci aveva seminato già due volte) mentre lui si dirige in via Odescalchi, dove arrivo in auto, mentre il mio collaboratore corre nella strada parallela. Arrivato all’angolo con via Rufina lo vedo sull’altro marciapiede. Scendo dall’auto, mi nascondo dietro un furgone, lo prendo di sorpresa e gli punto la pistola: «Carabinieri, non ti muovere che ti brucio il cervello!». Gli intimo allora di afferrare la cancellata, lo perquisisco e alla cintola trovo una pistola come la mia, una Beretta 92 S. Era la pistola di uno degli agenti uccisi un anno prima nella rapina di autofinanziamento in via Prati di Papa, che fruttò loro oltre un miliardo di lire. Nel frattempo arriva Cataldi e insieme lo portiamo in caserma.

Quando avete capito che il bersaglio non era lei?

Subito. Dai movimenti capiamo che poteva essere una sua rotazione per riprendere 'servizio' su un obiettivo preciso, e la postazione in via Rufina verso cui si portava era incompatibile con la mia abitazione e la mia prassi giornaliera. Addosso gli troviamo un foglietto con dei nomi in sigla e degli orari diversi di un quarto d’ora l’uno dall’altro, con dei simboli riferiti a 4 o 5 punti di osservazione. Allora mi viene in mente che l’obiettivo poteva essere De Mita, che abitava in zona, a pochi metri da casa mia, e che in quel periodo era citato in vari documenti brigatisti per il suo piano di riforme. Lo contatto e mi conferma che via della Nunziatella era una delle strade che percorreva spesso, per recarsi in centro o al comitato regionale della Dc in piazza Sturzo, all’Eur. Poi dalle indagini capimmo con certezza di aver evitato un omicidio, o addirittura un sequestro di persona ai suoi danni. La rapina di Prati di Papa dimostrava che le Br a Roma avevano ancora una buona capacità militare e la volontà di tornare in azione ad alti livelli.

Che cosa viene deciso, allora?

De Mita, che sta per divenire presidente del Consiglio, è trasferito subito dopo in una residenza più sicura, in via in Arcione, nell’attico blindato nei pressi di Fontana di Trevi.

De Mita non accettava l’idea che i killer di Ruffilli fossero gli stessi che avevano messo lui nel mirino.

Invece è così. Al tempo era attiva solo la colonna romana d’altronde, che aveva già ucciso Lando Conti a Firenze. Ruffilli era l’uomo delle riforme. L’operazione a Roma era diventata complicata, e allora la portano a termine a Forlì, dove correvano meno rischi. Non a caso a Forlì vengo mandato io: facciamo le indagini e arriviamo ai responsabili, tutti della colonna romana che aveva agito per colpire De Mita.