Attualità

Il rapporto. Stranieri in Italia, un Pil come la Croazia

Alessia Guerrieri giovedì 19 ottobre 2017

Testa bassa e mani operose per produrre tanto quanto fanno Paesi come la Croazia, l’Ungheria, la Slovenia. Altro che fannulloni o, peggio, 'ladri di lavoro' destinato agli italiani. Tutte dicerie, sfatate dai numeri contenuti nell’annuale rapporto sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Moressa che quest’anno ha ottenuto il patrocinio dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e del ministero degli Affari esteri.

Ecco che, sfogliandolo, le tabelle mostrano che i 2,4 milioni di occupati in Italia nel 2016 hanno prodotto 130 miliardi di valore aggiunto – pari all’8,9% del Pil nazionale – cioè tanto quanto la diciassettesima economia dell’Ue. Senza contare, poi, il loro aiuto alle pensioni che con 11,5 miliardi di contributi previdenziali danno (5,2%) e grazie ai quali i conti dell’Inps vanno in attivo, aggiunti ai 7,2 miliardi di Irpef (4,6%) versata in oltre 570mila imprese straniere. Sia ben chiaro però, non si tratta di lavoro in concorrenza con gli italiani.

Gli immigrati nel nostro Paese infatti occupano in maniera prevalente alcuni settori – come quello dei servizi, l’edile e il manifatturiero – in cui i nostri connazionali in realtà quasi non si trovano. L’occupazione 'complementare' degli immigrati perciò si snoda principalmente nel settore domestico dove il 74% è straniera, così come quello dell’assistenza ai non autosufficienti in cui c’è il 56% di badanti immigrate e quello degli ambulanti in cui è straniero uno su due. Senza dimenticare il settore della ristorazione con il 18% degli stranieri, dell’edilizia con il 17% e l’agricoltura con il 16% di occupati non italiani.

Anche perché solo l’11% dei migranti è laureato, mentre tra i giovani italiani questa quota sale al 31%. Ci sono due mondi quindi che «dovrebbero parlarsi», dice il direttore generale per gli i- taliani all’estero e le politiche migratorie della Farnesina Luigi MariaVignali, durante le presentazione del rapporto al ministero, quello degli italiani all’estero e dei migranti in Italia. La loro economia, dunque, significa «integrazione personale e sociale, crescita umana e culturale». Non solo perciò gli stranieri fanno lavori non graditi agli italiani, fanno anche sempre più impresa.

Negli ultimi cinque anni così, a fronte di un calo del 2,7% delle società italiane, le ditte a gestione immigrata sono cresciute del 25,8% raggiungendo la quota di 570mila (9,4% del totale) e producendo 102 miliardi di euro di valore aggiunto (6,9% della ricchezza complessiva). Ad aumentare sono soprattutto gli imprenditori bengalesi, anche se il primato resta ai nati in Marocco (11%) e in Cina (10%). Va sfatata perciò la logica che «se ognuno sta a casa sua staremmo meglio sul fronte lavoro – spiega il direttore scientifico della Fondazione Moressa Stefano Solari – perché parte dei flussi sono dovuti ai cambiamenti economici e producono benessere». Ecco perché si profila la necessità, secondo Federico Soda, direttore dell’Oim per il Mediterraneo, di «legare le politiche dell’integrazione con quelle per lo sviluppo sostenibile anche in vista degli obiettivi dell’Agenda 2030».

Gli immigrati regolari nel nostro Paese sono oggi a quota 5 milioni. Una classe che contribuisce anche al benessere dell’ente di previdenza. Non lo nega il responsabile dell’Inps Tito Boeri, per cui tuttavia il calo delle migrazioni, oltre che significare un reddito nazionale più basso, produrrà anche «un peggioramento sostanziale dei conti previdenziali». Quindi al nostro Paese «servirebbero più immigrati regolari». Ciò di cui c’è da preoccuparsi insomma, secondo lui, più che della longevità «è il calo dei flussi in ingresso e del numero dei contribuenti che deriva dalla denatalità».